Michela Deriu, suicida a 22 anni per un video hard come Tiziana Cantone

Come Tiziana Cantone, anche Michela Deriu si è tolta la vita, a 22 anni, per un video hard fatto circolare da alcuni "amici", indagati per ricatto e istigazione al suicidio. Il suo è l'ennesimo esempio che mostra come l'emancipazione, anche sessuale, delle donne, sia un peso da portare e non un diritto acquisito.

Come Tiziana Cantone. Michela Deriu, la giovane barista sarda trovata morta da un’amica nella notte tra il 4 e il 5 novembre 2017, ha preferito togliersi la vita piuttosto che convivere con il peso, soffocante, della pubblica umiliazione, delle risatine, dei commenti mormorati a mezza voce del paese, delle insinuazioni. Come Tiziana, dicevamo, su Michela incombeva l’ombra di un video hard, girato per goliardia, forse, in un accenno di incoscienza, un video che doveva restare privato, e invece è stato diffuso senza troppi scrupoli, finendo con il diventare troppo ingombrante per lei.

L’ipotesi del suicidio in seguito alla diffusione del video hard sembra, almeno al momento, la più accreditata seguita dai carabinieri di Tempio Pausania, che agiscono sotto le direttive di Gianluigi Dettori, il magistrato titolare dell’inchiesta; a dirottare le indagini degli inquirenti sardi in quella direzione, sostiene la 27esima ora, alcune tracce rinvenute proprio sul telefono cellulare della ventiduenne Michela, i contatti con dei coetanei divenuti via via più intensi, le parole scritte su un biglietto ritrovato accanto al suo cadavere, fino al recupero del video vero e proprio. Ma andiamo con ordine.

Michela racconta agli amici del bar di essere stata derubata, nella notte del 1° novembre, dopo essere rientrata tardi a casa dal lavoro. Qualcuno, racconta, l’ha aggredita mentre apriva il portone e l’ha stordita spruzzandole del gas, portandole via il borsellino con i 1100 euro che conteneva. Nonostante ciò, Michela non sporge denuncia ai carabinieri, che tuttavia la convocano in caserma dopo aver appreso la notizia da un articolo del giornale Nuova Sardegna. Pochi giorni più tardi è lei che ritira la paga al bar, prima di sparire. Si fidava di una collega che aveva lavorato con lei a Porto Torres, la chiama per chiederle se può raggiungerla alla Maddalena. L’amica acconsente, Michela arriva sull’isola, nella borsa dei vestiti e i biglietti del viaggio di ritorno. Nulla che facesse pensare alla tragedia che poi si è consumata. L’amica una sera la lascia sola in casa, e quando rientra, a notte fonda, la trova morta, impiccata con un laccio, con due biglietti. Uno recita “Scusa, a Porto Torres non sarei riuscita a farlo“, e l’altro dice “… sono riaffiorati quegli scheletri di due anni fa…”.

Di quali scheletri parlava Michela? Proprio lei, dicevamo, anche grazie a quelle parole, è riuscita a incanalare gli inquirenti nella pista che porta al ricatto sessuale, fino alla scoperta del video compromettente, che la vede protagonista con altre persone, qualcuno che riprende, voci fuori campo, forse di altri presenti. Un’indiscrezione porterebbe a un viaggio compiuto, qualche mese fa, da Michela, in Irlanda. Dovunque sia stato girato, comunque, il video è rimasto segreto per un po’, ma poi ha iniziato a circolare, come spesso accade, purtroppo, tramite il passaparola via social e WhatsApp. Viene visto dagli amici, poi dagli amici degli amici, in una catena infernale che ti precipita nell’imbarazzo e nella vergogna. Proprio come successo a Tiziana. Perché, sotto quella coltre di becero moralismo e puritanesimo malcelati da paventate aperture mentali, alla fine la pietra dello scandalo è sempre chi vive liberamente la propria sfera sessuale, fantasie comprese. Non chi riprende e poi diffonde, in un assurdo atteggiamento fieramente machista, video intimi, dando il via, decisamente consapevole, alla gogna, mediatica e non, di chi in quel video compare. Non chi contribuisce ad alimentare lo scandalo, la macchina del fango. Alla berlina ci finisce sempre e solo chi vive la propria vita sessuale apertamente, come dovrebbe essere se si è un essere libero e senza legami. Non doveva accettare di farsi riprendere, doveva rifiutarsi di tenere accesa la telecamera? Sapeva di essere ripresa? Su questo ognuno può avere le proprie opinioni, è più che legittimo, e per carità la soglia del pudore di ciascuno di noi è talmente soggettiva che nessuno mai dovrebbe permettersi di discutere le diverse opinioni, in un senso o nell’altro. Ma, proprio per questo, allo stesso modo nessuno dovrebbe permettersi di dire, o anche solo di pensare che, siccome sapeva di essere ripresa, allora di finire in quel casino poteva anche aspettarselo.

Michela era una donna libera, felice di esserlo; aveva il diritto di vivere la sua vita, anche sessuale, senza rendere conto a nessuno, senza doversi sentire etichettare come una “puttana” per questo. Poteva avere anche la libertà di farsi riprendere mentre faceva sesso, non doveva invece finire con il vivere nel terrore di essere perseguitata per quello. Di essere additata, criticata, denigrata. O, peggio ancora, come pare nel suo caso, ricattata proprio per non finire nella spirale dei giudizi, fino a pensare che l’unica soluzione possibile per uscire da quel tunnel fosse la morte.

Tre, dicevamo, sono gli indagati in questo caso: il video incriminato è stato ritrovato dai carabinieri nel computer di uno di loro, tre “amici” che sarebbero i responsabili della diffusione del filmato, nonché delle continue telefonate e dei messaggi incessanti con cui avrebbero ricattato Michela, fino a spingerla prima a lasciare Porto Torres, poi a togliersi la vita.

Istigazione al suicidio, tentata estorsione e diffamazione aggravata, le accuse mosse nei confronti dei tre; le indagini delle forze dell’ordine cercheranno nuovi dettagli che possano gettare ancora più luce sulla fine di Michela, ma l’amara constatazione che ci sorge spontanea è che, ancora una volta, l’emancipazione sia stata considerata una colpa, il tradimento e la diffamazione… forse o al massimo giusto un po’.

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