È mortə Andrea Gibson, poeta queer. Aveva 49 anni. La scelta di "non combattere" il cancro

Poeta, attivista e voce gentile delle lotte queer, Andrea Gibson ha scelto di accogliere la malattia come parte intrinseca della vita, rifiutando la retorica della lotta.

“Quando lascerò questo mondo, fosse anche tra sessant’anni, vorrei che nessuno dicesse che ho perso una battaglia. Quel giorno sarò unə vincitorə” – Andrea Gibson

Andrea Gibson è statə unə vincitorə oggi. Il 14 luglio, alle 4:16, Andrea Gibson è mortə nella loro casa circondatə dalla moglie, Meg, da quattro ex fidanzate, dalla madre e dal padre, da dozzine di amici e dai suoi tre amati cani.

Con queste parole Gibson stessə ha annunciato la sua morte – l’uso del verbo nella sua forma attiva è una scelta precisa di chi scrive – in un post congiunto con la compagna Megan Falley. Nella caption “solo” il nome e le date: “Andrea Gibson 8/13/75 – 7/14/25”.

Le parole contano sempre. Per chi di parole vive, però, contano di più. Gibson ha scelto di accogliere la propria morte, come ha fatto Michela Murgia: ha scelto di non delegare la narrazione della sua malattia, e neppure il racconto della propria fine, allo stesso modo in cui ha autodeterminato la sua vita, di persona e poeta queer.

La scelta di Andrea Gibson oltre la retorica della battaglia

Quando, due anni fa, ad Andrea Gibson è stato diagnosticato un cancro ovarico terminale, ha fatto una scelta controcorrente: non avrebbe lottato, avrebbe accolto. “I will allow this”, “lo permetterò”, disse in una preziosa intervista video a Freethink. Non per resa, ma per liberazione. Del resto Andrea Gibson, persona non binaria e poeta queer, conviveva da anni con attacchi di panico e paure paralizzanti. La diagnosi non le ha distrutte: le ha disinnescate. “Ho amato fottutamente la mia vita”, sono state alcune delle sue ultime parole.

La poesia di Andrea Gibson: rifugio, preghiera e rivoluzione gentile

Già molto prima della malattia, Gibson aveva costruito un universo poetico fondato sulla semplicità, sull’empatia e sulla ripetizione di immagini quotidiane: lune, aquiloni, neve, lacci tutti elementi che tornavano, rimescolati, da un testo all’altro. In questa essenzialità – che qualcuno definiva “ingenua”, altri “viscerale” – risiedeva la potenza della sua scrittura.

“La poesia è linguaggio alla sua forma più distillata e potente”, diceva Rita Dove.

Andrea Gibson ne è stata una prova vivente.

Poeta laureatə del Colorado e autorə di sette libri, ha raccontato con la stessa tenerezza il suicidio delle persone queer, l’amore per la propria compagna Megan Falley, la bellezza fragile della vita con il corpo malato. La loro vicenda sarà al centro del documentario Come See Me in the Good Light, in uscita su Apple TV+ in autunno.

Andrea Gibson e la gentilezza radicale

Gibson ha scritto molto sull’amore – quello romantico, ma anche quello che si può provare per chi ci ferisce, o per un estraneo in una stanza d’ospedale. In una delle sue poesie più note, MAGA Hat in the Chemo Room, descrive l’incontro con un altro paziente in chemioterapia, un uomo con un cappellino di Trump. All’inizio la rabbia è forte: cosa ci fa quell’odio politico in uno spazio così vulnerabile? Poi, l’empatia. Nessuno dovrebbe morire da solo. Nemmeno chi ti disprezza. “Tutti pensano di avere così tanto tempo da perdere”, dice Gibson. Ma il tempo è sacro.

Scrivere di gentilezza non è mai debolezza

Scrivere di gentilezza in un mondo violento è spesso considerato un atto minore. Gibson ha dimostrato il contrario. Senza mai rinunciare alla denuncia – del razzismo, del cambiamento climatico, dell’odio anti-trans, della violenza patriarcale – ha costruito la sua opera come un grande gesto di compassione. Anche nei confronti dell’uomo che l’aveva aggreditə a 13 anni.

L’eredità di una vita piena

Nella poesia Tincture, scritta ben prima della diagnosi, e ripresa da Faith Hill su The Atlantic in quello che è, a tutti gli effetti, un elogio funebre vitale, Gibson dice:

Immagina, quando un essere umano muore, che l’anima senta la mancanza del corpo.

Senta la mancanza di ogni singolo giorno in cui il corpo era malato, del presente che imponeva, dell’adesso che costruiva dalla febbre. La febbre è come il corpo prega, come brucia e implora un altro giorno normale.

Andrea Gibson non ha combattuto il cancro. Ha pregato con il corpo, ha vissuto con gratitudine, ha trasformato la sua poesia in una carezza collettiva. E ci ha ricordato che la gentilezza è, senza retorica alcuna, l’atto più rivoluzionario.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!