"Non posso nutrirlo": il neonato lasciato con un biglietto e il dramma delle madri di Gaza

Un neonato lasciato davanti a un edificio con un biglietto straziante diventa simbolo dell’estrema vulnerabilità delle madri palestinesi. Intanto, attivisti e volti noti leggono per oltre 18 ore i nomi dei bambini uccisi a Gaza.

Un neonato è stato trovato davanti all’ingresso di un edificio a Gaza. Accanto a lui, un biglietto scritto con una calligrafia tremante:

«Mio marito è prigioniero. Non posso nutrirlo. Non ho latte materno perché non c’è cibo per me, e non posso permettermi il latte artificiale. Non avevo altra scelta.»

Questa immagine – diffusa dal fotografo Wissam Nassar, finalista al Premio Pulitzer, e condivisa anche dall’avvocato e autore Khaled Beydoun, dalla giornalista Hanna Kaupp e dalla pagina Everydaywatani – ha fatto il giro del mondo, rivelando la condizione disumana in cui si trovano le madri palestinesi. Private di ogni sostegno, senza accesso a cibo, acqua o medicinali, sono costrette a compiere gesti estremi pur di offrire una possibilità di sopravvivenza ai loro figli.

La fame, l’assedio, la maternità impossibile

Ne scrissi più di un anno fa, qui, quando la situazione delle donne di Gaza, madri e non, sembrava aver già toccato il fondo.
Invece no: l’orrore è un abisso senza fine.

18 ore per leggere i nomi di 15.613 bambini palestinesi uccisi da Israele a Gaza

Davanti al Parlamento inglese, alcuni giorni fa, ci sono volute più di 18 ore per leggere ad alta voce i nomi di oltre 15.613 bambini palestinesi uccisi da Israele a Gaza.
Non di tutti. Di quelli noti, ché:

«Ci sono decine di migliaia di altri bambini morti e dispersi sotto le macerie, di cui potremmo non conoscere mai i nomi.»

La lettura collettiva che ha visto la partecipazione di attivisti e personaggi pubblici, tra cui l’attore Steve Coogan, l’attrice Nadia Sawalha, Chris O’Dowd, India Amarteifio, Ncuti Gatwa e il sopravvissuto all’Olocausto Stephen Kapos, è stata sostenuta da organizzazioni come Choose Love, impegnata in azioni umanitarie nei territori colpiti dalla guerra.

Ci sono volute diciotto ore per pronunciare l’enormità del genocidio in corso.
Una staffetta in cui gli attiviste e le attiviste hanno scandito, uno per uno, i nomi di questi bambini massacrati.
Lo hanno fatto davanti a uno striscione su cui erano elencati quelli dei 1.700 neonati di età pari o inferiore a un anno uccisi a Gaza.

«Le parole non salveranno i bambini di Gaza, Keir Starmer. Abbiamo bisogno di azione.»

Hanno detto i partecipanti rivolgendosi al Primo Ministro inglese. La richiesta è quella di sospendere immediatamente tutte le vendite e le licenze di armi del Regno Unito a Israele; garantire l’accesso umanitario senza interferenze militari; e mediare un cessate il fuoco immediato e permanente.

Nominarli per resistere alla disumanizzazione

Nominare le persone vittime del genocidio in corso è più di una commemorazione: è un atto politico, un gesto di dissenso e ribellione necessario. Dare voce a quei nomi è un modo per restituire umanità a bambini la cui esistenza è stata massacrata mentre il mondo stava (e sta) a guardare, nella sospensione totale del diritto internazionale.

In un conflitto dove i numeri si accumulano velocemente e l’opinione pubblica internazionale si frammenta, ricordare uno per uno i nomi dei piccoli uccisi è un modo per resistere alla disumanizzazione. E per guardare in faccia, nome per nome, il costo della violenza.

La maternità sotto assedio

Nel frattempo, nella striscia di Gaza, si stima che una donna su dieci partorisca neonati sottopeso o prematuri, mentre aumentano i casi di aborto spontaneo, morti intrauterine e malformazioni congenite.

Questo è quanto emerge dalla recente inchiesta della BBC firmata dalla corrispondente dal Medio Oriente, Yolande Knell, e il collega Callum Tulley.

Molte donne, come Malak Brees, affrontano la gravidanza tra i bombardamenti e senza accesso a visite prenatali:

«Ho perso molto liquido amniotico e i medici mi hanno detto che la causa è la malnutrizione… che la sopravvivenza del feto è nelle mani di Dio».

Altre, come Aya al-Skafi, non riescono ad allattare per mancanza di cibo e vedono i loro figli morire perché non possono procurarsi latte artificiale.

In alcuni casi, come quello documentato dalla neonatologa e infermiera d’urgenza Sandra Adler Killen, i bambini prematuri vengono mandati a casa poche ore dopo il parto per mancanza di posti nelle terapie intensive neonatali. Le donne, anche dopo cesareo, vengono dimesse entro 24 ore e costrette a rientrare nei campi con neonati bisognosi di cure che in altri Paesi verrebbero trattenuti in ospedale.

Impossibile contare le donne che partoriscono senza accesso ad alcuna assistenza medica, e muoiono.

«Ci troviamo davanti a un’escalation di disperazione, perdita di speranza e ideazioni suicide», afferma Killen.

In una terra dove metà della popolazione ha meno di 18 anni, il diritto alla vita e alla salute materno-infantile non solo è negato: è diventato un’arma di guerra.
In una terra in cui le madri tentano il gesto disperato di affidare i figli neonati ad altri, sperando siano un po’ meno disperati, insieme a loro muore la nostra umanità.

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