Perché il travel blogging è un problema

Scopro che a Gerusalemme ci sono state delle esplosioni leggendo il post di una coppia di travel blogger. Rassicurano i follower sulle loro condizioni di salute e ricordano a tutti che ci sono già passati, che erano a Parigi quando c’è stato l’attacco al Bataclan. Non sono i primi, e nemmeno saranno gli ultimi, a mettersi in primo piano su uno sfondo di tragedia, appena sfocato.

Scopro che a Gerusalemme ci sono state delle esplosioni leggendo il post di una coppia di travel blogger. Rassicurano i follower sulle loro condizioni di salute e ricordano a tutti che ci sono già passati, che erano a Parigi quando c’è stato l’attacco al Bataclan. Non sono i primi, e nemmeno saranno gli ultimi, a mettersi in primo piano su uno sfondo di tragedia, appena sfocato.

Anni fa, lessi di un terremoto tra le righe di promozione di un blogger che era appena giunto nel paese in questione, ad una buona distanza spazio temporale dalla tragedia. E ancora, le semplici gallerie piene di foto di baci sovrapposti a monumenti e luoghi sacri come scenografie di polistirolo, resi pezzi d’arredamento di una storia pre-confezionata in un piano editoriale e concordata precedentemente con il cliente, tendenzialmente una struttura alberghiera o un ufficio per il turismo. Talvolta, con un ente del turismo ufficiale.

Il travel blogging è un problema

Confesso, prima di credere seriamente nella mia scrittura e nella fotografia ho fatto la travel blogger. Pensavo ci fosse spazio per il turismo sostenibile, che fosse qualcosa di attuabile, ma dopo un breve sguardo e una magistrale ho chiuso con quel mondo. 

Ed ora me lo trovo quel turismo, tra le dita, a giocare a chi ha subito un attentato. Perché, possiamo dirlo onestamente, è un gioco di apparenze, un tentativo di rimanere sulla cresta della notizia senza avere qualcosa di costruttivo da aggiungere e tutto da guadagnare. Prevalentemente like e commenti, qualche condivisione e forse, un post che alzi l’engagement e, quindi, la soddisfazione del cliente. Sorge quindi il problema morale, si può prestare la propria facciata multimediale a uno stato che commette un genocidio come Israele? Si può usare la morte di civili per ricevere consenso digitale? Si può continuare a essere il mezzo di esercizio di soft power?

Le risposte vengono automatiche, ma non è così semplice. Per molti, l’importante è esserci. Avere del contenuto da vendere al prossimo cliente, che siano gli USA con le loro guerre lontane, Israele con il suo genocidio, una catena – Hilton, Marriott e compagnia, con la loro offerta standard -, o il Qatar con la schiavitù, quella è la priorità.   

Classismo digitale

Il problema, oltretutto, è che il guadagno si ha solo a fronte di un seguito notevole, quindi quando si ha un potere tale da poter rifiutare e scegliere con cognizione e attenzione con chi lavorare. Il classismo digitale – quello che mi sono permessa di definire come una forma di discriminazione sociale ed economica derivata dal volume (reale o meno che sia) della propria presenza mediatica – trova nel mondo del travel blogging libera espressione. Nessuno biasima chi è costretto dagli eventi e dalle circostanze, ma salvo poche eccezioni (di persone che ancora narrano il viaggio con sincerità e non sguazzano in posizioni di privilegio), nel mondo del travel sono i campioni d’incassi a non farsi remore

Appropriazione culturale: dal “Se vuoi puoi” a “Mangia, prega, ama” 

Gli stessi che usano le culture del mondo per quei messaggi che iper semplificano il mondo sociale, dal “se vuoi puoi” al turismo alla “mangia, prega, ama” che usa le criticità del mondo, povertà in testa, come fossero un oggetto e uno strumento, un elemento da interpretare come insegnamento sulla propria vita

In buona sostanza si fa convergere la vita degli altri verso sé stessi e le si attribuisce un significato capace di enfatizzare la propria convinzione o condizione, come nel caso di chi vedendo la povertà riconosce in essa un valore autentico e quindi determina che le persone povere stiano bene e che ci sia solo da imparare. É evidente che le cose non stanno semplicemente così, che questo genere di discorso giustifica la disuguaglianza e offre a chi lo fa la possibilità di sentirsi bene – grato e fortunato – nella sua ricchezza. In tutta onestà, quel “se vuoi puoi” andrebbe letto come “Se puoi avrai ciò che vuoi”, il “Mangia, prega, ama” come un incentivo all’appropriazione culturale (quindi all’uso superficiale, strumentale e frammentario della cultura altrui, da parte di persone facenti parte di gruppi dominanti o che non sono discriminate in quanto membri di quella specifica cultura).

Rubare il dolore degli altri

E dunque, eccomi qui, con questo orribile post tra le dita e poche opzioni. Scelgo di scriverci qualcosa -fuori dai social- per essere costruttiva. Leggendo i commenti vedo e constato che c’è una reazione univoca: preoccupato affetto. Espresso da chi pensa veramente che siano quei due ad essere destinatari dell’attenzione che un fatto del genere merita. Che li riguardi così direttamente – è pur sempre un’interruzione ad un’altrimenti rosea narrazione di viaggio – da renderli protagonisti. Loro. Non i morti. Non i Palestinesi che si trovano a combattere una guerra asimmetrica con uno stato che ha le armi più sofisticate e gli alleati più potenti al mondo. 

È un furto, vero e proprio, un’acquisizione di dolore e dramma che alla fine ha come unico risultato – non desidero speculare sullo scopo – like e commenti. Difendersi da questa presa del dolore altrui e il suo riciclo ad elemento di intrattenimento è fondamentale, soprattutto perché l’educazione del social media abitua a considerare qualsiasi cosa, evento o persona come svago. Spettacolo della morte altrui compreso

In questo mondo di plastica, a quanto pare, c’è spazio perché chi si vende il genocidio come sfondo, dopotutto fa più click di un tempio.

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