Cosa insegniamo ai ragazzi quando diciamo alle ragazze: "Non puoi andare in giro così"

“Le cose brutte capitano anche se non te le vai a cercare, immagina se vai in giro vestita così/ ubriaca/ a quest’ora. Lo dico per il tuo bene!”. Parliamo di responsabilità di genere oltre slogan e paternalismi.

Copriti!
Non puoi andare in giro così.
Se torni a casa da sola a quell’ora, cosa vuoi che ti succeda?
Le cose brutte capitano anche se non te le vai a cercare, immagina se vai in giro vestita così/ ubriaca/
a quest’ora-
Vestita così sembri una che lo fa di mestiere!

Le variazioni al tema sono infinite.
Hanno la pretesa di essere raccomandazioni dette per il nostro bene, e come tali ogni ragazza se le sente ripetere in famiglia, a scuola e in ogni contesto “formativo” sin da giovanissima, e fino a quando si presume sia lei stessa a

tramandare ad altre figlie o alunne questa saggezza, allenata alla paura e alla rabbia di appartenere a un genere che deve proteggersi e guardarsi le spalle.

C’è una grande verità in queste parole, intendiamoci. Noi donne siamo abituate a mettere in atto strategie di autoconservazione:

  • Organizzandoci per NON tornare a casa da sole a una certa ora di notte,
  • NON vestendoci come vogliamo ma invisibilizzandoci il più possibile per attraversare un determinato quartiere,
  • NON prendendo un treno alle 11 di sera,
  • NON bevendo quel bicchiere nella disperata necessità di restare vigili.

Rimpicciolendo cioè i nostri spazi e tempi vitali.

Uomini, potete immaginare cosa significa

convivere COSTANTEMENTE col pensiero latente della violenza che incombe con buona probabilità su ognuna di noi, pianificando in sottrazione le nostre mosse per provare a sfuggirle?

No, non potete!

La verità, tra l’altro, è che queste pratiche “proteggono”, quando va bene, giusto da alcune situazioni limite.

Basta vedere i vestiti che indossavano ragazze e donne quando sono state stuprate (esposti nella mostra itinerante “Com’eri vestita?”), leggere l’ora in cui è successo, conoscere la loro età e cosa stavano facendo, per capire che un maglione deforme che ti infagotta non ti salva.

Di sicuro non ci protegge dalla violenza di amici, partner, mariti, ex, colleghi e conoscenti, nella schiera dei quali si celano quasi sempre i nostri abuser.

Cosa insegniamo a bambini e ragazzi quando “proteggiamo” le loro sorelle?

Ora, quando in casa, a scuola, ma anche sui media usiamo nei confronti di figlie, alunne e di un intero genere queste frasi paternaliste “a fin di bene”, ad ascoltarle ci sono anche figli, fratelli, compagni di classe e l’intero “altro” genere che ne trae l’insegnamento prescrittivo e moralistico che ne deriva.

Più o meno inconsciamente, bambini e ragazzi apprendono che:

  • esiste un codice di comportamento femminile che, se disatteso, espone le sorelle al pericolo per loro stessa responsabilità.
  • Comprendono altresì che esiste un valore morale femminile che giustifica una “punizione”e li deresponsabilizza.

Non basta non crescere espressamente i figli alle logiche del maschilismo e della cultura dello stupro, per educare bambini e ragazzi alla parità.

Spostare il focus: dalla protezione passiva all’educazione attiva

Nello spostare il focus dalla protezione passiva delle ragazze (che evidentemente non funziona!) all’educazione attiva dei ragazzi, l’imperativo

Protect your daughter, educate your son

che campeggia sui muri delle nostre città e nelle piazze riunite contro la violenza di genere ci avverte di questo, e pretende una doppia responsabilità:

la prima è una responsabilità educativa, che chiami a sua volta in causa e formi una responsabilità di genere.

Tradotto: senza un’educazione sentimentale e al consenso non si va da nessuna parte.

LegaCoop Commissione Pari Opportunità

Perché se è vero che le varie forme di violenza di genere contemplate nella piramide colpiscono le donne, ad agirle sono maschi, ragazzi e uomini nella maggior parte dei casi “ben” socializzati. Nel senso che, dalle microagressioni quotidiane al catcalling, fino ad arrivare allo stupro e al femminicidio,

gli autori delle violenze di genere sono quasi sempre familiari o conoscenti, soggetti considerati “bravi ragazzi”, a volte un po’ gelosi (“per troppo amore”), feriti (perché traditi, rifiutati o lasciati) o magari un po’ eccentrici, ma incapaci di fare male a una mosca.

Ma noi non siamo mosche!

Nel saggio The Will to Change: Men, Masculinity, and Love, bell hooks illustra molto bene coma la socializzazione maschile tende a promuovere la dominazione e la repressione emotiva, fattori che contribuiscono alla perpetuazione di atteggiamenti sessisti e violenti; ma anche il fatto che questi siano giustificati o non attenzionati con la dovuta alacrità dal tessuto sociale in cui sono agiti perché a sua volta educato a ritenere tali comportamenti come “normali”.

Scoprire che:

  • una vittima di femminicidio aveva già depositato una, cinque, dieci denunce,
  • o era già stata in pronto soccorso per maltrattamenti,
  • o aveva lasciato a un’amica o a una sorella disposizioni nell’eventualità “che mi succeda qualcosa”,

va sempre di pari di passo con la costernazione dei vicini di casa, dei familiari, dei compagni di scuola e degli amici della vittima. Nessuno se l’aspetta mai!

Quei “bravi ragazzi” che ci massacrano

Il violento è sempre (o quasi) uno tranquillo, magari taciturno, magari “disperato”, ma comunque “un gigante buono”, “un grande lavoratore”, “molto legato alla famiglia” e “disponibile con gli altri”: “un bravo ragazzo”.

Le due versioni della stessa persona sono possibili solo all’interno di una società che non comprende l’importanza del consenso e soprattutto ammette la violenza maschile come mezzo di espressione di sé e del proprio disagio. In Masculinities, la sociologa Raewyn Connell sottolinea che i ragazzi crescono in un contesto che normalizza il potere maschile e la subordinazione femminile: l’educazione deve quindi mirare a destrutturare questi modelli di comportamento, responsabilizzando i ragazzi a riconoscere il privilegio di genere e ad abbracciare la parità come valore.

Cosa che è possibile solo se si interviene in età scolare, a partire dalla scuola dell’infanzia, laddove si sedimentano i primi stereotipi di genere, come insegna il lavoro educativo di Caren Gestetner, co-fondatrice di Lifting Limits, organizzazione che affronta il sessismo sistemico nelle scuole.

La “responsabilità di genere” che fa arrabbiare gli uomini

Parlare di responsabilità di genere fa arrabbiare molti uomini che si proclamano alleati, ma che dimostrano così di non comprendere il problema:

Responsabilità di genere non significa
prendersi la colpa di violenze non compiute

Responsabilità di genere significa riconoscere
che esiste un paradigma di socializzazione improntato alla subordinazione femminile e alla legittimazione della violenza maschile

Anche le femmine crescono a pane e maschilismo, ma nei millenni di oppressione noi abbiamo sviluppato una consapevolezza di genere – e anche una lotta – obbligate, poi trasformate anche in pratica volontaria e mutualistica. Abbiamo avuto, ben prima che venisse battezzato così, e abbiamo il femminismo.

Manca invece, dall’altra parte, un corrispettivo: un percorso di genere simile che, a differenza nostra, non può arrivare che da una pratica volontaria.

Oggi chiediamo questo a ragazzi e uomini:

organizzatevi in gruppi di autocoscienza, formatevi, decostruite, cambiate!
Prendetevi, per favore, la vostra responsabilità di genere.

“Prisma. Spunti per riflettere il presente” è una rubrica nativa social a cura di Ilaria Maria Dondi, che si pone l’obiettivo di uscire dalle polarizzazioni e guardare il mondo da punti di vista diversi per riappropriarci della complessità e delle sfumature. Questo è il contenuto social originale:

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