Benedetta Sabene: quello che non si può dire sulle guerre, soprattutto se sei donna - INTERVISTA

Di falsi miti sul conflitto russo-ucraino, di cose che "non si possono dire" ma vanno dette e di diritti umani che "non ammettono doppi standard, né un'applicazione selettiva ma, appunto, universale": intervista a Benedetta Sabene, autrice di "Ucraina. Controstoria del conflitto. Oltre i miti occidentali".

Se è vero che, come scrive Michela Murgia in Stai Zitta (Einaudi, 2021):

Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva.

È pur vero che vi sono alcuni argomenti reputati appannaggio maschile, e difesi strenuamente come tali sia dai professionisti ritenuti autorevoli in tali ambiti, per ruolo e anzianità, sia dal pubblico che accetta poco o male che a parlarne sia una donna. Tra questi “temi da maschi” si annoverano, tra gli altri, la politica internazionale e le guerre.

Nel caso dei conflitti, in particolare, si assiste alla divisione, se non netta comunque evidentemente orientata, che affida alla voce delle donne le storie, personali o corali, dal conflitto (l’elemento emotivo), e agli uomini la disamina strategica e l’autorevolezza critica (l’elemento razionale).

Accade così che l’uscita a fine 2023 di Ucraina. Controstoria del conflitto oltre i miti occidentali (Meltemi editore), abbia indispettito alcune persone perché a firma di Benedetta Sabene, redattrice per Servizio pubblico, il web-media di Michele Santoro, ed esperta in  politica estera e conflitti; nonché giovane e donna. Due dati, quest’ultimi, irrilevanti nella costruzione analitica di questo studio, che punta a decostruire in 284 pagine la narrazione mainstream del conflitto russo-ucraino e a ridare complessità alla Storia passata e presente con l’ausilio di fonti autorevoli, occidentali e ucraine.

Senza dedicare ulteriore tempo a chi vorrebbe delegittimare il suo libro con i “sei una ragazzina”, “torna a fare le foto su Instagram” e “non ti impicciare di cose da uomini”, di cui pure mi premeva dar conto, perché restituisce un’idea di come siamo messi in termini di sessimo e misogina sul tema, le chiedo: per aver scelto di documentare questa “controstoria del conflitto” lei è stata accusata di essere filo-putiniana e filo-russa (cosa più volte smentita da lei e, nei fatti, dal suo lavoro di divulgazione anche sui social). Perché strutturare un’analisi e portare le prove di una contro-narrazione possibile, scatena tanto astio?

Quando si parla di conflitti, la maggior parte delle persone tende a fare una divisione netta tra buoni e cattivi. È una logica oppositiva, che ha a che fare (e che serve!) anche a chi le guerre le fa o le giustifica.
È un meccanismo di iper semplificazione che si applica, in generale, a tutte le notizie e a tutti i temi e, così facendo, si polarizza il dibattito, si ipersensibilizza il pubblico rispetto a un’istanza o a un’altra, si spostano i voti.
Sul piano internazionale, il meccanismo è ancora più evidente, perché i conflitti sono di per sé un tema doloroso da affrontare: generano sofferenza, distruzione, rifugiati, morti, paura, anche in chi ne è escluso. Il problema si ha quando la politica e chi si occupa di relazioni internazionali sovrappone questo elemento centrale dei conflitti, che è la sofferenza umana, al tema della comprensione del conflitto, ovvero allo studio del perché siamo arrivati a esso, che è la domanda principe di chi studia la geopolitica.

Cercare di comprendere come si è arrivati a un conflitto, non significa assolvere chi quel conflitto l’ha iniziato. Cercare di comprendere i meccanismi dei conflitti ha lo scopo di prevenirli e dare poi gli strumenti affinché cessino e non succedano più. È per questo che abbiamo un apparato di diritto internazionale, delle normative e degli istituti internazionali che cercano di regolare i rapporti tra le nazioni.
Dalla Seconda guerra mondiale in poi, il ruolo della diplomazia è stato centrale nell’evitare e prevenire conflitti armati, almeno sul suolo europeo e americano.

Cos’è andato storto nella gestione delle tensioni russo-ucraine?

È mancato l’utilizzo di tutti gli strumenti possibili della diplomazia per evitare lo scontro. Si è appunto iper semplificato un conflitto molto complesso che riguarda più livelli: lo scontro tra due governi molto nazionalisti, la guerra civile interna ucraina e il conflitto internazionale. La guerra in Ucraina è diventata prima di tutto un conflitto tra due visioni del mondo opposte, quella russa e quella occidentale. Oggi dirlo è un eresia, ma gli esponenti della scuola di realismo geopolitico statunitense analizzavano lo scontro in questi termini già nel 2014 , e il sostegno occidentale all’Ucraina a oltranza è stato – ed è in questo senso – una strategia messa in campo dagli Stati Uniti per sostenere questo scontro di valori.
Questo, va da sé, non giustifica la Russia, ma abbiamo confuso il piano morale con il piano dell’analisi. Chiunque abbia provato in questi due anni a tirare furi queste complessità è stato tacciato di esser complice del nemico, ma così non si promuove alcuna possibilità diplomatica e di pace.

Che ruolo giocano i media in questa confusione?

Il racconto mediatico è molto semplificato: ci si giocano clic e dati di ascolto andando alla ricerca di immagini sempre più impattanti, si danno in pasto al pubblico senza criterio e strumenti stupri di massa e atrocità varie, che fanno sì che le persone rispondano a ogni tentativo di analisi complessa con il rifiuto umano, che è giusto e legittimo, ma non serve a comprendere e quindi prevenire.
Chi prova ad andare oltre viene zittito: “Ma allora tu giustifichi queste atrocità!”.
Così si crea il cortocircuito.

In questo cortocircuito, la pornografia del dolore che ci ha appena descritto diventa essa stessa un’arma. Non c’è il rischio di anestetizzarci, quasi per assuefazione, a questo tipo di immagini? Penso anche all’orrore che rimbalza sui media dalla Striscia di Gaza, e che in qualche modo ha sopito la nostra indignazione e il nostro interesse per la questione russo-ucraina.

Sottoporre continuamente le persone a questo tipo di contenuto finisce per trasformare l’orrore e la sofferenza più atroci in un contenuto social come un altro. La gente si abitua a vedere immagini che in un contesto normale sarebbero scioccanti.
Detto questo, bisogna fare anche una distinzione. Tra i governi che utilizzano il proprio apparato mediatico per sottolineare le proprie ragioni belliche (pensiamo a Israele e ai fatti del 7 ottobre), e la popolazione civile che, mostrando la propria sofferenza senza più alcun filtro, lancia il proprio grido di aiuto: il loro è un “guardateci, ci stanno facendo questo, perché nessuno lo impedisce, è un disastro umanitario, cosa dovete vedere ancora o di più per intervenire?”.
Quella dei palestinesi è una denuncia, una richiesta di aiuto che l’apparato mediatico occidentale ignora: le immagini che vediamo sui social, infatti, faticano a circolare sui telegiornali e nei talk show. Questa cosa che in altri Paesi non accade, e parlo per esempio dei media turchi e dei telegiornali mediorientali.

E la Russia? 

Ha fatto la stessa cosa. In Italia non sapevamo nulla di quello che stava succedendo in Donbass, tra cui crisi umanitarie ed economiche, sistema pensionistico negato agli anziani nei territori separatisti, eccetera. Nel frattempo, i media russi per otto anni non hanno fatto altro che mostrare la crisi umanitaria nel Donbass, parlando anche di un presunto genocidio e di una presunta pulizia etnica russa. Propaganda. Putin l’ha fatta anche quando ha invaso la Georgia, tirando in ballo di nuovo lo spettro della pulizia etnica per avere il favore dell’opinione pubblica all’intervento.

La cito: “Certo che condanno l’invasione russa dell’Ucraina e i bombardamenti ucraini sui civili del Donbass. Sono dalla parte di tutto il popolo ucraino, compresa quella parte che non ha voce. Penso che il principale responsabile dell’invasione sia Vladimir Putin. Ma penso anche che sia in buona compagnia”. Di che compagnia parla? 

Noi europei abbiamo una grossa responsabilità nei confronti dell’Ucraina, perché abbiamo delegato il compito di stabilizzare il nostro continente a parti terze, Stati Uniti in primis, che hanno gestito autonomamente la questione ucraina dal 2014.
L’Unione europea e gli europei in generale devono ancora capire cosa vogliono fare da grandi. In termini di tutela dei diritti umani, di protezione dei diritti civili, ma anche di supporto ai processi di democratizzazione, noi avremmo potuto e avremmo dovuto fare di più. Invece abbiamo lasciato che il militarismo prendesse il controllo della situazione: abbiamo visto queste mega esercitazioni della Nato nel Mar Nero cui i russi rispondevamo con altre esercitazione.
Addirittura, due mesi prima dello scoppio del conflitto ci sono state proposte di accordi tra russi e americani. Perché non hanno parlato con l’Unione europea? Perché noi non siamo interlocutori affidabili o autorevoli? Perché non ci hanno mandato bozza di questo trattato?
Formalmente l’Unione europea rivendica un ruolo stabilizzatore, ma a livello fattuale è un ruolo addirittura di terzo piano, se si pensa che persino la Turchia è riuscita a chiudere accordi sul grano. Tutte cose che avrebbe potuto e dovuto fare noi.

Dire questo non nega la responsabilità morale, politica e militare di chi questa guerra l’ha iniziata, quindi di Putin e del suo governo, ma da occidentali non ci si può sempre auto assolvere.

E rispetto alla Palestina? 

Abbiamo visto l’Unione europea prendere posizione nei confronti della Russia. Perché le stesse decine di pacchetti di sanzioni non sono state imposte a Israele? La sproporzione e l’ipocrisia nella gestione occidentale della questione palestinese è evidente, e la nostra immagine internazionale ne esce compromessa: i diritti umani non ammettono doppi standard, né un’applicazione selettiva ma, appunto, universale.

Il libro

Ucraina
Controstoria del conflitto. Oltre i miti occidentali

di Benedetta Sabene
Meltemi, 2023

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