Il primo contatto con l’idea dell’aborto risale al liceo, ai primi anni, alle scale sempre ingolfate di persone, dell’odore di sigaretta e di zaini. A quelle prime volte in cui si sono aperti varchi nella calca lenta e strascicata che ci avrebbe portato in classe. Alle prime pance tese come palloni che vedevamo sbucare e ingrandirsi su corpi che di adulto avevano ben poco.

Sapevo cosa fosse un aborto, ma l’idea che questo mi spettasse in quanto persona potenzialmente in grado di rimanere incinta si è fatta largo in quegli anni, su quelle scale, durante le lezioni, quando a qualcuno non arrivavano le mestruazioni e bisognava accompagnarlo a pisciare su un bastoncino di plastica, perché fare il test a scuola era una sicurezza. Lontano da genitori, parenti e persone con un’idea ben precisa sulla vita altrui, era più semplice pensare di poter scegliere. E la scelta era tra due opzioni, abortire o non abortire e, quindi, diventare genitori. Sapevo cosa avrei fatto io, in caso fosse successo, ma che l’aborto fosse un diritto l’ho capito solo accompagnando una persona, una minore, in tribunale per ottenere il consenso giudiziario per l’aborto.

Lì, in quel corridoio, mentre aspettavo nella mia giacchetta bianca l’esito di una valutazione a cui non avrei mai preso parte, lì ho capito quanto la legge sia profondamente pervasiva. E quanto l’interruzione di gravidanza sia difficilmente accessibile.

Ieri, negli Stati Uniti d’America, la Corte Suprema, ha ribaltato la sentenza Roe v.Wade, la base giuridica statunitense che garantiva l’accesso all’aborto come diritto costituzionale. Il congresso ha seguito la linea di pensiero della scorsa amministrazione, il cui consenso si basa in larga parte sul fanatismo religioso e conservatore evangelico. Trump aveva nominato giudici conservatori e antiabortisti con il preciso scopo di rimuovere Roe in modo da consegnare agli Stati la possibilità di scegliere se garantire il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza o meno. E sono ben 26 gli Stati in cui la pratica abortiva potrebbe essere resa illegale. 

Ciò che appare estremamente chiaro è che la scelta della Corte Suprema mina il diritto alla salute di tutte le persone aventi un utero, infatti sebbene la propaganda antiabortista parli di abolizione dell’aborto in termini assoluti, queste leggi hanno solo la capacità di rendere l’aborto illegale, non di cancellarlo dalle opzioni delle persone che ne hanno bisogno. Il ribaltamento della sentenza, quindi, condanna centinaia di migliaia di persone, più di 600.000 all’anno secondo le statistiche Abortion Surveillance – che come tutte le statistiche relative a questo genere di dinamica sono sempre da considerarsi sottostimate per via della difficoltà di reperimento dati – all’illegalità con annessi rischi.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le morti derivate da complicazioni conseguenti a procedure abortive illegali e non sicure costituiscono circa il 4.7 % – 13,2% delle morti connesse alle gravidanze. Ed è a queste procedure che la Corte Suprema sta consegnando la salute delle persone direttamente colpite dall’assenza di tutela. Non si tratta però solo di una negazione di fatto e di diritto, ma anche dell’ennesimo episodio capace di evidenziare le dimensioni della disuguaglianza negli USA. Infatti, pur risiedendo in stati antiabortisti, le persone più abbienti, in grado di sostenere gli esosi costi delle assicurazioni sanitarie, potranno agilmente aggirare la legge, cercando di raggiungere stati in cui la pratica abortiva è lecita. Saranno le donne e le persone più povere, le cui vite si svolgono in ambienti urbani espulsi e senza servizi, le persone razzializzate, la cui salute è già minacciata dal razzismo medico sistemico, le persone musulmane già espulse dall’islamofobia diffusa e istituzionalizzata anche negli ambienti ospedalieri, le soggettività trans e non binarie, la cui sicurezza è drammaticamente a rischio quando devono rivolgersi alla medicina ginecologica in ambienti discriminanti, i minori e le persone il cui status giuridico non è tutelato dalla cittadinanza a pagarne le conseguenze maggiori. 

Le donne nere, in particolare, rischiano di subire maggiormente le derivazioni negative della legge. Con un tasso di mortalità materna 3 volte superiore a quello delle donne bianche, frutto di un sistema espulsivo e stigmatizzante, le donne nere rappresentano il 38% dell’utenza che richiede una pratica abortiva negli USA. Nella maggior parte dei casi le donne nere sono  l’unica fonte di sostegno economico del loro nucleo familiare di appartenenza e, per accedere all’aborto, considerando che la maggior parte di loro risiede negli stati del sud ovvero i più antiabortisti, devono allontanarsi dalla casa e dalla comunità per raggiugnere le cliniche, soprattutto quelle che praticano aborti a costi ridotti.

Sono i gruppi umani più marginalizzati e discriminati quelli che effettivamente risultano essere minacciati e colpiti da legislazioni antiabortiste. In ambienti in cui l’aborto non è legale e tutelato le gravidanze indesiderate possono compromettere sia la salute psicofisica della persona sia la sua partecipazione alla società. Ad esempio, ragazze minorenni vengono allontanate dalla scuola, perdendo la possibilità di diplomarsi e di conquistare una maggiore indipendenza lavorativa ed economica, un cuscinetto essenziale per uscire da relazioni abusive e problematiche. Le lavoratrici e i lavoratori precari possono essere allontanati dal luogo di lavoro, perdendo la loro unica forma di sostentamento. Persino le interazioni con la sessualità mutano, il sesso ritorna ad essere un fattore legato alla procreazione e la sua esperienza fonte di vergogna. Parlarne torna ad essere un tabù e acquisire conoscenze a riguardo diviene virtualmente impossibile. Le malattie a trasmissione sessuale e le gravidanze precoci, quindi, diventano scarsamente prevenibili. 

Gli Stati Uniti però non stanno ledendo solo ai loro cittadini, ma stanno compiendo un’opera di risignificazione del diritto molto più estesa. Se quella che viene, erroneamente, definita la più grande democrazia al mondo – di democratico c’è davvero poco – colloca l’aborto nell’illegalità, questo rischia di essere riprecipito dal resto del mondo non come un diritto inalienabile, ma come una concessione rimovibile.

In Italia l’afflato antiabortista è forte e solido, sostenuto da una morale cattolica decisa a redimersi e conquistarsi il paradiso prendendo decisioni sulle vite altrui. La 194, la legge che consente e tutela l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza in Italia, non è fatta rispettare sul territorio. Il dispositivo dell’obiezione di coscienza, infatti, risulta essere un cavillo per non rendere effettivo il godimento del diritto di accedere alle pratiche abortive. Addirittura in alcune regioni del paese l’aborto è effettivamente inaccessibile, cosa che rende la legge violata da quelle stesse istituzioni che dovrebbero garantirla. 

La legge è costantemente minacciata da una politica facilona, che vuole orientare piccoli fanatismi e frustrazioni verso una causa comune e facile da odiare come l’aborto. Orde inferocite di antiabortisti, guidate da presunti cristiani, desiderano imporre la propria volontà su soggettività autonome relegandole a meri strumenti, ascrivendone la progettualità all’unica funzione ad esse riconosciuta : la capacità di produrre figli.

Negare il diritto all’aborto significa negare la libertà di scelta, la possibilità di determinare il proprio futuro in autonomia, quindi negare agli individui coinvolti il diritto inalienabile di essere persone e soggetti di diritto, non oggetti su cui imporre percorsi complessi come gravidanza e genitorialità. Più di tutto, stupisce la tracotanza mostruosa, l’intento ad ergersi a dei di questi gruppi fanatici, interessati a pretendere di intelleggire le volontà divine più che a tutelare le vite in essere, declassate e relegate a vite meno importanti di quelle potenziali.

Gli Stati Uniti, rischiano di rinforzare queste convinzioni, di fare da eco agli antiabortisti del mondo facendo credere che la negazione della pratica abortiva possa coincidere con un sistema democratico e di diritto. In realtà l’assenza di una tutela che garantisca un accesso sicuro alle interruzioni volontarie di gravidanza è un indicatore prezioso per misurare la salute di una democrazia e la tutela dei cittadini che essa dovrebbe rappresentare.

Ricordo ancora quella volta in cui fu il mio turno pensare di essere incinta. Lo dissi salendo le scale e tirando dritta verso il bagno. Ricordo ancora quella compagna che si era offerta di accompagnarmi. “Se sei incinta lo tieni vero?” Mi ricordo di averle detto di no, che non se ne parlava nemmeno. “Guarda che un bambino è una cosa bella”. Ho pisciato sul mio bastoncino e ho tirato un sospiro di sollievo. Dopo, rientrando in classe, le ho detto che un bambino non è una “cosa” e che non lo sono nemmeno io e che per questo avrei abortito senza nemmeno pensarci due volte. Avrei potuto farlo, abitando in Lombardia, a Milano, avrei avuto più opzioni di tante mie connazionali. E se fossi stata in una regione limitrofa avrei preso un treno. 

Se mi fossi trovata in Texas, con le sue estensioni e mentalità, quel pensiero non avrei potuto farlo. Come pure se mi trovassi oggi in Polonia, o in Israele o in qualsiasi altro paese, sempre poco casualmente razzista e sessista, che viola i diritti umani dei suoi cittadini.

Perché l’interruzione volontaria di gravidanza è un diritto umano, è parte integrante del diritto alla salute. Ed è proprio questo che la Corte Suprema americana ha violato con 5 voti.

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