Una storia drammatica arriva dall’Indonesia dove, come riporta l’agenzia di stampa Ansa.it, una ragazzina indonesiana di 15 anni è stata condannata giovedì scorso a 6 mesi di reclusione per aver abortito. Infatti nel Paese l’aborto è illegale, a meno che non sia frutto di uno stupro. Anche in questo caso, però, la donna deve optare per l’interruzione di gravidanza entro 6 settimane dal concepimento e solo presso strutture ospedaliere specializzate. Questa normativa è stata molto criticata, perché si scontra con una realtà in cui l’aborto, anche in seguito a una violenza, è fonte di disonore e non è facile per le donne, soprattutto se giovani, prendere una tale decisione.

Ed è il caso di questa ragazza, condannata per non aver rispettato la normativa. Il suo aborto era infatti sì una conseguenza di una violenza, ma ben oltre le 6 settimane e soprattutto è stato eseguito in modo clandestino. A maggio è stato infatti ritrovato un feto con la testa decapitata vicino a una piantagione di olio di palma. Ma c’è di più: a metterla incinta sarebbe stato il fratello, diciottenne, che l’avrebbe violentata ben otto volte dallo scorso settembre.

Per l’uomo è stata decisa una pena di due anni, così come ha reso noto Singgih Hermawan, vice-capo della polizia di Batanghari nella provincia di Jambi, mentre per la ragazza si sono decretati 6 mesi di detenzione, dopo che l’accusa aveva chiesto addirittura un anno. Si attende inoltre anche la messa in stato di accusa della madre della ragazza, che avrebbe aiutato la figlia ad abortire di nascosto.

Si tratta dunque di una tragedia nella tragedia, favorita da una società in cui il pensiero fortemente maschilista relega la donna a non poter decidere per sé e soprattutto permette che venga promulgata quasi la stessa pena per lo stupratore incestuoso e la sua vittima, colpevole, quest’ultima, di non aver voluto in grembo il frutto di tale violenza orribile.

Le leggi sull’aborto in Indonesia sono spesso criticate dai gruppi per la difesa dei diritti delle donne poiché molte indonesiane sarebbero costrette a far ricorso a cliniche illegali: secondo un rapporto del 2013 dell’Oms gli aborti rappresenterebbero tra il 30% e il 50% delle morti tra le madri nel Paese.

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