Perché oggi Wired compare così: con gli articoli senza titolo
Una riflessione contro la superficialità, per ricreare un antico contatto con il lettore: ecco la ragione per cui oggi gli articoli di Wired non hanno titolo.
Una riflessione contro la superficialità, per ricreare un antico contatto con il lettore: ecco la ragione per cui oggi gli articoli di Wired non hanno titolo.
Una giornata senza titoli per il sito di Wired, per invogliare i lettori a una riflessione sul giornalismo e sul modo in cui i social network potrebbero averne cambiato la percezione.
Negli ultimi anni, ci ritroviamo spesso a discutere di clickbait – ossia del modo in cui il titolo di un articolo online cerca di attrarci all’apertura di un link e che non necessariamente riflette il contenuto dell’articolo stesso. Quest’argomento è di enorme attualità e forse è all’interno di un circolo vizioso in cui ci appare che la fiducia degli italiani (e forse non solo la loro) nel giornalismo non goda esattamente di ottima salute. Ma andiamo con ordine.
Visitando il sito di Wired, oggi 30 giugno, avrete notato che nessuno degli articoli in home page ha un titolo. Questo significa che anche nella condivisione via social noi non leggiamo il titolo (anche se nello snippet social vediamo foto e meta che ci inducono a immaginare almeno l’argomento di un determinato pezzo). Secondo Wired, questa scelta temporanea, che dura appunto una giornata, quella di oggi, è legata al fatto che si vuole invitare “i lettori a non restare in superficie” e a non percepire l’informazione come qualcosa che non contiene sfumature.
Molto spesso – si legge su Wired – la formazione dei nostri giudizi è legata agli slogan degli opinion leader (politici, influencer e così via) oppure alla sola lettura dei titoli dei siti di news o dei giornali. Ma gli slogan – come i titoli – spesso sintetizzano e semplificano fin troppo. E soprattutto banalizzano questioni complesse su cui i cittadini sono chiamati a farsi un’idea. A tutto ciò vanno aggiunti i meccanismi tipici delle piattaforme social. Che da una parte – con i loro algoritmi – ci consigliano contenuti in base ai nostri interessi, e così rischiano solo di rafforzare le convinzioni di partenza. E dall’altra – con i pollici alzati, i cuoricini e le varie emoji – promuovono discussioni prive di profondità, eliminando cioè tutta quella complessità di cui sono fatti il mondo e le sue vicende.
Il Web prima e i social network poi hanno reso il giornalismo sempre più schiavo di algoritmi e della ricerca spasmodica di click. Prima si dà una notizia, più sensazionalistica la si rende, più click verranno fatti.
“Devi dare la notizia per primo, ma prima devi dare la notizia giusta” fa però dire Woody Allen al personaggio di un giornalista defunto in Scoop. Per cui ben venga l’iniziativa di Wired, e auguriamoci che la riflessione si allarghi a macchia d’olio. I giornalisti dovrebbero essere i cani da guardia della democrazia, non i “ragni” dei social (al netto di tutto le possibilità positive che queste piattaforme forniscono).
Vorrei vivere in un incubo di David Lynch. #betweentwoworlds
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