72 giorni.

Tanto è passato da quando i talebani hanno riconquistato Kabul, gettando l’Afghanistan nel panico e, soprattutto, distruggendo completamente i diritti acquisiti dalla popolazione femminile in vent’anni di controllo americano ed europeo.

Preoccupazione per la sorte delle donne afghane era stata espressa dalla comunità internazionale fin dalle prime oro dopo la presa della capitale da parte dei talebani, nonostante le rassicurazioni di questi ultimi sul mantenimento dei diritti per le donne del Paese; in realtà le promesse sono state ben presto disattese, visto che già un paio di giorni dopo essere tornato al potere il gruppo estremista ha re-imposto l’obbligo del burqa e negato il diritto al lavoro e allo studio per tutte.

Stavolta però le donne afghane non si sono lasciate intimidire e, se molte hanno corso grossi rischi per lasciare il Paese subito dopo l’avanzata dei talebani, molte altre sono invece rimaste per protestare, ogni giorno, contro le restrizioni talebane.

A 72 giorni dalla presa di Kabul alle donne sono comunque stati negati moltissimi diritti: come quello, ad esempio, di praticare sport, perché, secondo Ahmadullah Wasiq, vicecapo della Commissione cultura, in questo modo le donne potrebbero rischiare di mostrare il corpo o il volto, cosa non permessa dalla sharia. Ma anche il diritto allo studio è cambiato, con le ragazze che, all’università, frequentano corsi separati in aule divise da séparé.

All’esecutivo ci sono solo uomini perché, come spiegato dal portavoce dei talebani Sayed Zekrullah Hashim, il compito della donna è quello di fare figli, e per lo stesso motivo non possono lavorare in radio, fare le insegnanti o le giornaliste.

A rischio sono le donne nubili o vedove, “cacciate” dai talebani per essere date in sposa ai loro mujaheddin, e quindi costrette a nascondersi o alla fuga, con tutti i rischi connessi.

L’aria nuova che si respira a Kabul si avverte anche nella conversione dell’edificio del ministero “Per gli Affari Femminili”, creato dopo il rovesciamento del primo regime talebano per coordinare le politiche di educazione e sviluppo per le donne, nel nuovo “Ministero per la Guida e Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio”; una riedizione della struttura pubblica che dal 1996 al 2001, per volontà del Mullah Omar, puniva le donne che uscivano di casa senza avere indosso un burqa e senza essere accompagnate da un parente maschio, e le condannava alla lapidazione per adulterio.

Come spesso accade nelle dittature le donne sono costrette non solo ad accettare quanto accade, ma anche ad affermare di condividere il pensiero dei talebani; qualche settimana fa, nell’anfiteatro dell’Università “Shaheed Rabbani”, trecento donne con indosso dei niqab neri hanno sventolato le bandiere bianche dell’Emirato Islamico, mentre altre donne difendevano tutte le misure adottate dal regime, al grido di slogan come “Chi non porta il velo islamico ci fa del male, noi siamo soddisfatte del comportamento dei mujaheddin”.

La situazione è dunque sempre più critica, ma nel frattempo le associazioni umanitarie continuano a darsi da fare; Pangea, ad esempio, sta portando avanti i suoi progetti: da settembre è ripreso il lavoro con lo staff afghano rimasto a Kabul, per riprogrammare le attività del progetto di microcredito ed empowerment.

Ma sta lavorando anche per le donne e i bambini che non sono riusciti a fuggire dall’Afghanistan, aprendo una casa rifugio, la prima di una serie di rifugi che apriranno in tutto il Paese.

Fonte: instagram @pangeaonlus

Infine, resta aperta la scuola per bambini e ragazzi sordi, anche se non è più possibile mantenere le classi miste, visto che i talebani hanno impedito alle ragazze sopra i 12 anni di frequentare la scuola; per questo, continueranno a frequentarla le bambine sorde dai 3 ai 12 anni e i maschi sordi dai 3 ai 18 anni.

Pangea sta comunque cercando metodi alternativi per garantire la prosecuzione degli studi anche alle ragazze sopra i 12 anni.

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