Alessia Pifferi, le 38 donne all'ergastolo e perché non parliamo dei padri assassini

Con Alessia Pifferi salgono a 38 le donne condannate all’ergastolo in Italia. Nella maggior parte dei casi si tratta di terroriste o mafiose: un'evidenza che ci interroga. Anche perché, in Italia, nel 64,2% dei casi la persona che commette figlicidio è il padre, ma sono le madri assassine, quelle che entrano nell'immaginario collettivo e per le quale la vox populi arriva a invocare la pena di morte. Uscire dalle dinamiche forcaiole e di pancia per iniziare una discussione seria e complessa sul tema del figlicidio, che oggi manca totalmente in Italia, serve a comprendere: non nel senso di giustificare ma di prevenire, salvare bambini e bambine. In assenza di un dibattito, resta la caccia alle streghe, e alla strega per eccellenza: Medea.

Con Alessia Pifferi – condannata in primo grado della Corte di Assise di Milano e per la quale la Difesa ha già annunciato che ricorrerà all’Appello – salgono a 38 le donne condannate all’ergastolo in Italia. Nella maggior parte dei casi si tratta di terroriste o affiliate a organizzazioni criminali di tipo mafioso. Questa evidenza ci interroga e, d’altra parte, racconta molto della nostra società.

Non si tratta di mettere in discussione la colpevolezza di Pifferi, ma di argomentare sul diritto e il concetto stesso di una giusta pena, che passi dall’accertamento della responsabilità del singolo, certo, ma anche di eventuali altre persone collaterali e del sistema società in cui il delitto avviene. La necessità di una discussione seria e complessa sul tema del figlicidio, che oggi manca totalmente in Italia, serve a comprendere: non nel senso di giustificare ma di prevenire, salvare bambini e bambine. In assenza di un dibattito, resta la caccia alle streghe, e alla strega per eccellenza: Medea.

Medea, l‘infanticida

Pifferi è oggi l‘emblema del mostro, che da sempre nella cultura patricarcale trova la sua massima espressione in Medea, l‘infanticida. Medea è colei che non solo abdica al suo ruolo di madre (l‘unico di fatto riconosciuto dalla società e dalle leggi del tempo alle donne), ma priva il pater familias della sua stirpe. Un pater familias, espressione della legge della società di cui la famiglia è appunto il nucleo più piccolo, che giudica e punisce ma è perennemente deresponsabilizzato.

Dov‘era il padre e soprattutto la famiglia di Pifferi, in questa vicenda, sembra un interrogativo superfluo. Eppure, con il senno di poi, la stessa famiglia e pure i vicini parlano con certezza di una donna non in grado di accudire un‘infante. Con il senno di poi…

Per provare a interrogare la complessità, si potrebbe partire da questa domanda:

Qual è la responsabilità delle persone attorno a Pifferi, che hanno dichiarato in sede di processo tutta una serie di mancanze della donna condannata, ma nulla hanno fatto per mettere al sicuro la figlia Diana, 18 mesi?

Quando chi sapeva e ha taciuto o non ha fatto nulla smette di essere una persona informata sui fatti e diventa, non complice certo, ma persona che commette omissione di soccorso, per esempio?

Le 38 donne condannate all’ergastolo in Italia

Ma veniamo alle altre 38 ergastolane, di cui scrive Fulvio Fulvi su Avvenire:

  • 12 sono sottoposte al 41bis.
  • Nella maggior parte, si tratta di mafiose o terroriste.
  • Una è Rosa Bazzi (caso Erba), per la quale si è mobilitato un fronte innocentista che, con tanto di ricorso alla Corte europea di Giustizia, 17 anni dopo i fatti chiede la revisione del processo.
  • Una è Veronica Panarello che nel 2014 strangolò il figlio Loris Stival di 8 anni e occultò il cadavere.
  • Due sono donne che hanno ucciso il partner: Luana Cammalleri, 36 anni, è stata condannata all’ergastolo in primo grado per aver ucciso il marito; per Melita Ainain, 75 anni, il “fine pena mai” è sentenza definitiva per aver ucciso il consorte in concorso con altre due persone (la donna si è sempre proclamata innocente).

Per inciso: sarebbe qui interessante un confronto con le pene degli uomini che commettono femminicidio, in ottica proporzionale alla ricorrenza del delitto di genere che, a differenza dell’omicidio del partner da parte della donna, è un fenomeno sistemico.

Ci sono poi altri numeri che è importante leggere: non per fare un esercizio di stile, né per schierarci dalla parte dei giustizialisti o degli innocentisti, ma per comprendere per prevenire.

Comprendere per prevenire: salvare i bambini (e anche le loro madri!)

La selezione di estratti che segue è tratta dall’indagine condotta in Libere. Di scegliere se e come avere figli, (Dondi, Einaudi, 2024), pp. 138-145:

In Italia, dal 2010 a metà 2022 sono stati 268 gli omicidi di figli da parte di un genitore, una media di quasi uno ogni due settimane: di questi, il 55,6% aveva meno di 12 anni (Eures, Banca dati figlicidi 2010-2022). […]

Nel 64,2% dei casi la persona che commette figlicidio – termine ombrello per omicidio di un figlio a prescindere dall’età – è il padre. Il dato è importante per decostruire la narrazione della madre mostruosa e contro natura che infiamma l’opinione pubblica, molto più di quanto non avvenga quando l’assassino è papà. Servirsi del triste primato paterno come bandiera per evidenziare l’oggettiva matrice maschile della violenza domestica, è però insufficiente e rischia di compromettere una visione più profonda e costruttiva del fenomeno. Per aspirare a un’analisi che sia propedeutica a strategie di prevenzione, è importante leggere i numeri senza rinunciare alla complessità dell’interpretazione. Perché se è vero che 172 dei 268 bambini assassinati da un genitore dal 2010 a oggi sono morti per mano del padre, tocca evidenziare che la madre è l’assassina nel 57,5% dei casi nella fascia 0-5 anni, e nella quasi totalità degli infanticidi (35 su 39 censiti).

La responsabilità maschile suggerita dai dati assoluti, salvo poi distribuirsi in modo più equo o ribaltato nel segmento della prima infanzia, non è un fenomeno solo italiano. Rapporti percentuali simili tra le madri e i padri che uccidono, in termini assoluti e per fascia di età, tendono a replicarsi su scale numeriche diverse negli studi svolti nei principali Paesi occidentali. […]

Ha quindi senso chiedersi: perché se le donne sono protagoniste di un numero ridotto dei crimini violenti, esse commettono quasi la metà dei figlicidi, con percentuali che crescono in modo vertiginoso se ci si limita a considerare gli infanticidi? Phillip J. Resnick, psichiatra forense di fama internazionale che si è occupa di figlicidio dal 1969, dopo aver analizzato le cartelle psichiatriche di un numero considerevole di madri assassine ha concluso che:

le donne che commettono figlicidi sono nella maggior parte dei casi persone in disagio economico e/o sociale, in assenza di reti famigliari e amicali o in contesti in cui quelle reti sono presenti ma non in grado di supportare la donna o riconoscere segnali evidenti di sofferenza psichica, sottovalutati quando non sminuiti e delegittimati.

Il figlicidio come vendetta verso il coniuge, invece, è il movente più ricorrente quando a compiere l’omicidio del figlio o della figlia è il papà. Il figlicidio paterno è quindi radicato nella cultura patriarcale che vede la donna come proprietà maschile.

Leggere i dati sul figlicidio attraverso la lente del genere non deve però essere un esercizio per scagionare le madri limitandosi ad accettare supinamente l’evidenza di una ricorrenza psicopatologica di eccezionale gravità all’origine del gesto materno, che non trova riscontro nei padri. Può essere una visione rassicurante ma, ancora una volta, limitante.

In questo senso, Martha Smithey del dipartimento di Sociologia della Texas Tech University, specializzata in criminologia in ambito familiare e genitoriale, offre un sguardo analitico sul tema:

«Ci sono molte ricerche su come la nostra società si aspetta che l’educazione dei figli sia responsabilità della madre con poco o nessun supporto sociale. La donna guadagna un reddito molto inferiore a quello degli uomini, ma deve assicurarsi al tempo stesso di gestire bene casa e maternità. C’è un grande squilibrio con cui molte donne lottano, e circostanze al di fuori del loro controllo, eppure diciamo alle donne che una brava donna è quella che può ‘fare tutto’. Il modello ‘fai tutto’ ha contribuito a tutti i tipi di problemi delle donne e delle madri, non è realistico e nessuno può essere all’altezza» (in Andrea Yates. Deena Schlosser. Megan Huntsman, Sociologist Studies What Leads Mothers to Kill Their Children, Texas Tech Today, 2020).

Sia chiaro: inquadrare il figlicidio all’interno di una responsabilità sociale nei confronti delle donne, non ha lo scopo di assolvere chi compie l’omicidio dalla responsabilità dell’atto criminoso, quanto di creare consapevolezza rispetto al sistema di discriminazione e iniquità endemico in cui affondano le radici le morti violente di questi bambini, per prevenirne altre laddove possibile. Gli studi di Smithey chiamano ogni cittadino o cittadina a una presa di coscienza individuale e collettiva scomoda ma necessaria

Fermarci alla tesi della malattia mentale senza indagare le cause è, ci dice la stessa Smithey, la versione colta e informata della presunzione di mostruosità dell’infanticida: una visione di superficie, di nuovo, rassicurante, che ci permette di indignarci nella convinzione di essere ‘altro’ da colui – ma principalmente colei – che appelliamo come pazza, mostro, bestia, demonio.

I padri uccidono più delle madri ma fanno meno rumore

È un dato di fatto: Annamaria Franzoni, Alessia Pifferi, Veronica Panarello sono entrate in un immaginario collettivo, che invece non saprebbe elencare il nome di un padre figlicida e,

nonostante la maggior parte dei figlicidi avvengano per mano paterna, sono le Medea che uccidono i figli a sollevare forche, interrogativi di massa e a gettare nello sgomento intere nazioni; sempre loro i soggetti prediletti degli studi scientifici.

Ogniqualvolta la cronaca restituisce un caso di infanticidio o figlicidio, negare l’umanità del mostro è ciò che ci permette di ristabilire una parvenza d’ordine sociale. La madre è colei che dà la vita al figlio quando partorisce, e che cederebbe la sua pur di salvarlo in qualsiasi momento: mai, viceversa. La mostruosità di Medea ha, di nuovo, a che fare con l’idea del destino di maternità delle donne, che si presume siano portate per natura all’accudimento del figlio. Al contrario, la coscienza collettiva attribuisce all’uomo le caratteristiche naturali dell’aggressività e della lotta, reputate valori maschili di cui la società civile – donne e bambini compresi –, dovrebbero beneficiare in termini di protezione.

Il padre figlicida fa meno notizia sia perché siamo assuefatti alla violenza maschile, sia perché il nostro inconscio comprende le motivazioni e ne attenua la colpa, come per il femminicidio, rispetto al quale permane infatti la narrazione del troppo amore e il cliché dell’uomo buono e innamorato trasfigurato dalla sofferenza. Come a dire: fa parte della natura maschile difendere il suo territorio; è invece contro natura la donna che non riesce a essere una madre esemplare, a qualsiasi costo e in qualsiasi condizione.

Comprendere per prevenire

In conclusione:

Se il figlicidio è frutto di una cultura maschilista, va da sé che è possibile prevenirlo solo con una cultura di genere paritaria.

L’idea di cambiare un’intera società può sembrare opprimente ma, come per altri grandi temi sociali – dal femminicidio al climate change –, è anche l’unica soluzione, non più demandabile. La prevenzione del figlicidio passa per una politica reale nell’ambito del diritto alla genitorialità (che è equamente diritto alla maternità e alla paternità) e dei diritti riproduttivi. L’introduzione del diritto all’aborto e l’accesso alla contraccezione, come abbiam visto, ha contribuito al decremento dei casi di violenza su minore, figlicidio compreso. A dirci, di nuovo, che supportare una genitorialità consapevole è il presupposto indispensabile per una politica che abbia a cuore la salute fisica e psicologica dei minori.

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