Il femminicidio di Denisa Paun: il corpo è stato ritrovato decapitato in un trolley

Denisa Maria Adas Paun è stata uccisa a 30 anni. Lavorava come escort e il suo corpo è stato ritrovato in un trolley, decapitato, in un casolare a Montecatini. Dietro la confessione dell’assassino, una rete di silenzi, minacce e disumanizzazione.

Sono finite ieri pomeriggio le speranze di ritrovare in vita Denisa Maria Adas Paun, la trentenne scomparsa da Prato lo scorso 15 maggio; la donna, che viveva a Roma, nel quartiere di Torpignattara, era arrivata a Prato per lavorare, ricevendo clienti in una stanza d’albergo. Usava uno pseudonimo, Alexandra, ed era presente su una piattaforma a pagamento per escort. Proprio dal residence di via Ferrucci dove aveva preso alloggio è scomparsa, il giorno stesso del suo arrivo nella città toscana.

Ieri, mercoledì 4 giugno, il suo corpo è stato ritrovato, chiuso in un trolley bianco tra i rovi nei pressi di un casolare abbandonato a Montecatini Terme, nel pistoiese. Stando alle ricostruzioni giunte finora, era decapitata.

A confessare l’omicidio è stato Vasile Frumuzache, 32 anni, anche lui romeno, guardia giurata, sposato e padre di due figli. Ha raccontato agli inquirenti di essere stato vittima di un presunto ricatto da parte di Denisa, per giustificare lo strangolamento avvenuto, secondo quanto emerso, la sera stessa della scomparsa nella stanza 101 dell’hotel Ferrucci a Prato.

Secondo il femminicida la vittima gli avrebbe chiesto 10 mila euro per tacere un rapporto sessuale avvenuto tra i due, e lui l’avrebbe strangolata, presumibilmente nella stanza del residence, e poi caricata in auto; le indagini hanno potuto ricostruire la scena grazie a un incastro preciso di prove: i video delle telecamere, i tabulati telefonici, il GPS dell’auto del sospettato. Frumuzache è stato ripreso mentre entrava nel residence con un borsone nero e ne usciva con il trolley bianco di Denisa. Quel trolley conteneva il corpo. L’uomo avrebbe poi spiegato agli inquirenti, nel corso della sua confessione, di aver mutilato il corpo della trentenne e di aver bruciato la testa e il borsone nero nel giardino di casa sua, a Monsummano Terme, prima di abbandonare tutto al casolare, dove, sempre grazie al GPS, il corpo è stato ritrovato.

Una narrazione da sovvertire

Il modo in cui Denisa Paun è stata uccisa e nascosta parla di un odio profondo: l’omicidio, lo spostamento del corpo, la decapitazione. Ma anche la narrazione pubblica rischia di proseguire la disumanizzazione di Denisa. Era una lavoratrice del sesso. Ma era anche una figlia, un’artista (come dichiarato da chi la conosceva), una donna che – secondo le testimonianze – temeva per la propria vita.
Il giorno della scomparsa, infatti, aveva detto: “Se mi trovano mi ammazzano”, frase riportata da alcune fonti amiche. Un timore che sembra oggi drammaticamente fondato.

Sull’omicidio indagano adesso i carabinieri coordinati dalla Procura di Prato. Ma attorno a Denisa c’è anche una rete torbida fatta di omissioni e sospetti: la madre della giovane è stata iscritta nel registro degli indagati per false informazioni, avendo taciuto una conversazione con un avvocato che le aveva fornito consigli su come agire dopo la scomparsa della figlia. Lo stesso legale è indagato con l’accusa di sequestro di persona.
Il sospetto, insomma, è che Denisa Paun sia stata circondata da persone che, per interesse o paura, abbiano contribuito a isolarla e a rendere più facile la sua uccisione. Le indagini dovranno chiarire se Frumuzache abbia agito da solo.

Perché serve cambiare sguardo

La morte di Denisa Maria Adas Paun è una tragedia che va letta oltre i titoli. Ogni volta che una donna che fa sex work viene uccisa, c’è una parte dell’opinione pubblica che sospira un “se l’è cercata”. Ogni volta che la cronaca evidenzia il suo mestiere come fatto dominante, si contribuisce a disumanizzarla. E ogni volta che una donna viene decapitata e infilata in una valigia, non si può parlare solo di “delitto passionale” o “gelosia”.

Questo è odio. E anche un fallimento istituzionale.

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