Purtroppo, lo sappiamo: il femminicidio è un fenomeno che ha dimensioni enormi, non solo nel nostro Paese – dove le vittime sono già 14 dall’inizio dell’anno – ma anche a livello globale. Ancora troppo spesso, però, gli strumenti messi in campo per combatterlo non sono sufficienti e molti Stati ancora non registrano nemmeno i casi di donne uccise a causa della violenza di genere.

È per questo che, spiega la BBC, molte persone, donne, attiviste, hanno trasformato la loro attività in un vero e proprio lavoro investigativo, non solo per identificare i femminicidi e ottenere giustizia per le vittime, ma anche per lanciare l’allarme e prevenire nuove morti.

Come Gulsum Kav e i suoi colleghi attivisti di We Will Stop Femicide. Dopo aver avviato una campagna contro il femminicidio nel 2010, con il duplice obiettivo di capire l’effettiva portata del fenomeno in Turchia e fornire supporto alla famiglia di Munevver Karabulut, un’adolescente uccisa e abbandonata in un bidone a Istanbul, il gruppo si è ritrovato a fare il lavoro dei detective.

Tutto è iniziato quando è arrivata una lettera da una famiglia che credeva che la loro figlia fosse morta in circostanze sospette.

Il corpo di Esin Gunes, un giovane insegnante, era stato ritrovato in fondo a una scogliera nella provincia di Siirt, nel sud-est della Turchia, nell’agosto 2010. Il marito di Esin ha detto che erano andati nella zona per una passeggiata e un picnic, e lei era scivolata verso la morte.

La squadra di Gulsum ha commissionato una perizia che ha dimostrato che non era fisicamente possibile cadere nel modo in cui è caduta e che doveva essere stata spinta. Ciò ha portato alla condanna del marito per omicidio, ed è stato condannato all’ergastolo. La famiglia, diversamente dalle autorità, non aveva creduto fin dall’inizio alla versione del marito: i due, infatti, erano tornati insieme da poco, dopo che la donna si era allontanata dicendo di volere il divorzio.

Da quel primo caso, il team ha lavorato su oltre 30 sospetti femminicidi. «Spesso dobbiamo raccogliere prove noi stessi e lavorare come la polizia», ha spiegato Leyla Suren, un’avvocata volontaria del gruppo.

Ma la Turchia non è l’unico paese in cui chi vuole fare chiarezza sui numeri si ritrova a investigare per colmare le lacune delle forze dell’ordine.

«Per trovare la mafia», diceva Giovanni Falcone, «seguite i soldi». Per trovare i femminicidi, dicono Naeemah Abrahams e il suo team del South Africa Medical Research Council (SAMRC), «contate i corpi». Per raccogliere i dati effettivi dei femminicidi, infatti, le loro ricerche si concentrano sul numero di donne decedute, confrontato poi con i numeri delle indagini giudiziarie per far emergere le discrepanze:

Dobbiamo andare oltre l’esame di casi che sono già nel sistema giudiziario perché altrimenti vengono esclusi molti casi in cui la polizia ha già deciso di non perseguire, o altri casi che la polizia non ha affatto raccolto.

Il loro lavoro inizia all’obitorio, anzi negli obitori statali di tutto il Sud Africa: qui, esaminano i rapporti dei patologi e, dopo aver individuato le donne che sono state uccise, cercano altre caratteristiche, come il modo in cui è stata uccisa e se ci sono prove di un’aggressione o uno stupro.

In seguito, cercano di collegare il cadavere con un’indagine della polizia, per verificare non solo se è stato individuato un colpevole – cosa che, nella maggior parte dei casi, non è avvenuta – ma anche se sia presente un fascicolo. In molti casi, non c’è. Allora, sono loro a colmare le lacune:

continuiamo a fare interviste con la polizia, raccogliere dati sull’autore in modo da poter iniziare a identificare meglio di che tipo di femminicidio si trattasse, un femminicidio intimo per mano del partner o meno. […] La nostra speranza è che il governo sudafricano faccia proprio il nostro metodo investigativo, iniziando dagli obitori.

E gli sviluppi fanno ben sperare: il governo sudafricano, infatti, ha chiesto ad Abrahams e al suo team di elaborare una strategia di prevenzione del femminicidio per il Paese.

Se in Sudafrica lo strumento per combattere i femminicidi è la matematica, in Ecuador lo è la geografia. Qui, infatti, un gruppo di ricercatrici ha trovato non solo un metodo efficace per raccogliere i dati sui femminicidi, ma anche un modo per ricordare le vite delle donne che sono state uccise: le mappe.

Il progetto della Fondazione Aldea è nato per colmare lo scarto tra i dati ufficiali sui femminicidi registrati ufficialmente e quelli reali, tracciando gli ultimi movimenti delle donne morte in situazioni sospette e stabilendo, ad esempio, se sia stata precedentemente vittima di violenza domestica, come ha spiegato Nicoletta Marinelli, uno dei membri del team:

Attraverso i nostri contatti locali da tutto il paese siamo in grado di individuare i casi di sospetti femminicidi in anticipo, a volte molto prima che la polizia o i media lo scoprano

Inizialmente, le mappe sono nate per confrontare il numero di donne uccise in diverse regioni, ma ben presto il progetto ha assunto un altro volto, quello delle “mappe della vita”.

Sulla mappa vengono collocati i ricordi della donna: il parco dove andava a passeggiare, il suo bar preferito, il canile dove faceva volontariato o lo stadio dove un tempo ha visto esibirsi la sua cantante preferita. Brevi registrazioni audio di parenti, descrizioni e foto spiegano il legame della vittima con il luogo.

Le mappe diventano strumenti sociali, lavoriamo con le famiglie per popolarle: segniamo gli spazi che queste donne un tempo occupavano attraverso le voci e i ricordi di chi è rimasto indietro.

Le mappe sono disponibili sul sito della fondazione con l’obiettivo di rendere visibile la questione del femminicidio, sperando che renderla più personale e “umana” aiuti a sviluppare un dibattito e anche aiutare chi si occupa di combatterlo:

Queste mappe ricostruiscono le vite che sono state troncate, ma mostrano anche la dimensione sociale del problema. Ci sono fratelli e sorelle, figli e figlie, nonne, madri e padri lasciati indietro… e non sembra che se ne parli.

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