"Sei vittima solo se sei morta": Elena Cecchettin sulle aggravanti non riconosciute

La sorella di Giulia Cecchettin si sfoga in alcune storie Instagram per il non riconoscimento delle aggravanti nella sentenza che ha condannato Filippo Turetta all'ergastolo in primo grado.

Martedì 3 dicembre la Corte d’Assise di Venezia ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo in primo grado, una condanna che era nell’aria ma che tuttavia ha lasciato con l’amaro in bocca Elena Cecchettin, sorella di Giulia, uccisa dall’ex fidanzato nel novembre del 2023.

A far scaturire la delusione in Cecchettin che, come il padre, dopo il femminicidio della sorella si è prodigata nell’educazione e nella sensibilizzazione sulla violenza di genere, è stato il non riconoscimento delle aggravanti della crudeltà e dello stalking nella comminazione della pena; ma se per capire le ragioni della scelta occorrerà leggere le motivazioni della sentenza del tribunale veneziano, per Elena Cecchettin questa è stata un’occasione sprecata per affrontare l’argomento in maniera seria e completa, come spiega nelle storie pubblicate su Instagram.

Fonte: instagram @siderealfire

“Una sentenza giudiziaria non corrisponde sempre alla realtà dei fatti. Si chiama verità giudiziaria, ed è quello che viene riportato dal verdetto. E basta. Non toglie il dolore, la violenza fisica e psicologica che la vittima ha subito. Ciò che è successo non sparisce solo perché un’aggravante non viene contestata, o più di una.

[… Detto questo, il non riconoscimento dello stalking (non parlo nemmeno dell’altra aggravante, perché si commenta da sola la situazione) è un’ennesima conferma che alle istituzioni non importa nulla delle donne. Sei vittima solo se sei morta. Quello che subisci in vita te lo gestisci da sola. Quante donne non potranno mettersi in salvo dal loro aguzzino se nemmeno nei casi più palesi non viene riconosciuta una colpa. Però va bene con le frasi melense il 25 novembre e i dépliant di spiegazione”.

L’accusa, chiara, di Cecchettin si basa sulle prove raccolte a carico dell’imputato: 225 mila messaggi in due anni, circa 300 al giorno, l’ultimo il 9 novembre, appena due giorni prima che Turetta uccidesse Giulia Cecchettin e ne nascondesse il corpo, cercando poi di fuggire in Germania.

Messaggi che, secondo quanto sostenuto dall’accusa, si sarebbero aggiunti a “reiterati atteggiamenti minacciosi, il controllo dei suoi social media, l’acquisto di app spia che consentissero di monitorare lo stato online di Giulia in modo anonimo, il controllo dei follower, gli incontri inaspettati senza essere attesi, gli approcci fisici sgraditi…”. Per il pm Andrea Petroni c’erano tutti gli elementi per procedere contro Turetta anche per il reato di atti persecutori, disciplinato dall’articolo 612 bis, ma il giudice, in primo grado, sembrerebbe aver parzialmente accolto la tesi sostenuta dalla difesa del 22enne.

“Il delitto di atti persecutori non è un delitto di condotta, è un delitto di evento e il legislatore ha ritenuto di incriminare i comportamenti molesti individuando tre conseguenze sulla vittima – ha spiegato il legale di Turetta, Giovanni Caruso (a cui ieri è stata recapitata una busta contenente tre proiettili su cui stanno indagando Mobile e Digos) – il perdurante e grave stato di ansia o di paura, il fondato timore per la propria o l’altrui incolumità e il cambiamento delle proprie abitudini di vita. Ne basta una delle tre perché ci sia stalking. E noi non siamo riusciti a individuarne”.

Questo nonostante la lista vergata proprio da Giulia Cecchettin, in cui lei elencava le ragioni per lasciare Filippo Turetta, e i messaggi già citati raccolti durante l’indagine.

“Che Filippo Turetta fosse letteralmente ossessionato da Giulia è fuori discussione – ha aggiunto l’avvocato Caruso – annotazioni da spettro autistico, teneva una contabilità delle emozioni, dei comportamenti di Giulia. Era petulante, insistente, insopportabile”.

Atteggiamenti che, tuttavia, per la corte non sono stati sufficienti per decidere per l’aggravante dello stalking; anche questo punto ha trovato la disapprovazione di Elena Cecchettin:

“Fare l’avvocato è una professione e tutti hanno diritto a una difesa e su questo non ci piove. Tuttavia questo significa non avere responsabilità. Sostenere che i comportamenti dell’imputato siano ‘ossessivi, quasi da spettro autistico’ e giustificare con questa affermazione tutto quello che è successo, è vergognoso. Stiamo parlando di comportamenti che ledono alla libertà e alla vita di una persona, e associarle con così tanta leggerezza ad una neuro divergenza oltre che a banalizzare e sminuire queste azioni va anche a peggiorare i pregiudizi che nella nostra società che già ci sono per le persone neuro divergenti e sullo spettro dell’autismo”.

“Il fatto che chi sostiene che tanto la condanna sarebbe stata la stessa anche con le altre due aggravanti, non ha capito nulla – prosegue Cecchettin – Se nulla può portarci indietro, Giulia quantomeno può fare la differenza per altre donne nel futuro. È facile richiudere in cella per sempre una persona lavandosene le mani poi e dicendo di aver fatto giustizia. Ma è questa la vera giustizia?”.

Infine, Elena Cecchettin conclude spiegando perché riconoscere le aggravanti è tanto importante:

“Se non iniziamo a prendere sul serio la questione tutto ciò che è stato detto su Giulia che doveva essere l’ultima sono solo parole al vento. Sì, fa la differenza riconoscere le aggravanti, perché vuol dire che la violenza di genere non è presente solo dove è presente il coltello o il pugno. Ma molto prima. E significa che abbiamo tempo per prevenire gli esiti peggiori. Sapete cosa ha ucciso mia sorella? Non solo una mano violenta, ma la giustificazione e menefreghismo per gli stadi di violenza che anticipano il femminicidio”.

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