Hina Saleem e Sana Cheema, ragazze uccise per aver detto "no" al matrimonio combinato
Il dramma delle ragazze uccise perché volevano scegliere come vivere, e chi amare, porta con sé una lunga scia di sangue.
Il dramma delle ragazze uccise perché volevano scegliere come vivere, e chi amare, porta con sé una lunga scia di sangue.
È cominciato a Brescia il processo a carico di Mustafa Cheema e del figlio Adnan, padre e fratello di Sana Cheema, uccisa nel 2018 per aver rifiutato un matrimonio combinato. Il dibattimento è però caratterizzato dalla paura dei testimoni: “Non mettete il mio nome, temo per la mia vita, è un attimo che se torno in Pakistan mi fanno fuori. Se hanno ucciso la figlia possono uccidere anche me. Sono molto potenti” sono le parole di una delle persone ascoltate in aula, come riporta la sezione bresciana de Il Giorno.
Il 7 marzo, di fronte alla Corte presieduta dal magistrato Roberto Spanò, sono stati ascoltati amici, conoscenti e vicini di casa dei Cheema, che dopo l’assoluzione per “insufficienza di prove” in Pakistan non hanno mai più fatto rientro in Italia, dove invece sono imputati di omicidio politico.
Questo il racconto di un collega dell’autoscuola dove Sana Cheema lavorava, aiutando i connazionali con la patente: “So che Sana aveva delle discussioni con il padre per ragioni famigliari; lui lamentava che uscisse troppo con gli amici, che non fosse sposata. Una volta dopo un litigio Sana era andata in ospedale, lui l’aveva colpita con un oggetto, forse un mattarello, ma lei gli voleva bene, non voleva denunciarlo. Anche il fratello Adnan le rompeva le scatole per qualsiasi cosa”.
Nel gennaio 2018 mi disse che doveva andare in Pakistan per sposarsi – ha proseguito l’uomo – Voleva raggiungere la madre perché era nata la figlia della sorella, la quale si era sposata con un cugino di primo grado, glielo avevano imposto. Il padre è un potente, conosciuto in ambito governativo. Dove vivono loro l’onore è più importante della vita. I genitori avevano individuato 4 o 5 uomini da presentare a Sana, volevano sposasse uno della casta, ma lei era convinta che se il futuro marito non le fosse piaciuto sarebbe tornata in Italia.
Paolo Facchinetti, vicino di pianerottolo, l’ha descritta invece cosiì: “Sana era moderna ma non trasgressiva, i famigliari più tradizionali, ma non li ho mai sentiti litigare. Mi stupì il viaggio in Pakistan. Lo incontrai [il padre, ndr.] sulle scale, spiegò che Sana doveva sposarsi là, ma io sapevo che lei voleva un fidanzato italiano. Mi stupì ancora di più”.
Si erano perse le speranze di vedere a processo in Italia Mustafa Cheema e il figlio Adnan, accusati di aver ucciso la giovane Sana Cheema nel 2018, e assolti in Pakistan per insufficienza di prove. Dopo essere stati a lungo irreperibili, i due uomini, padre e fratello della ragazza morta, hanno contattato, nell’aprile del 2021, un avvocato del Foro di Brescia per occuparsi della loro difesa, nel processo che, dopo vari rinvii, dovrebbe prendere il via a maggio.
I due si sono sempre dichiarati innocenti, ma il pg Pierluigi Maria Dell’Osso, che si è sempre occupato dell’indagine, ritiene che i Cheema abbiano strangolato la ragazza con il foulard usato come tradizionale copricapo, per il suo rifiuto di sposare l’uomo scelto dalla famiglia.
Non c’è pace per Hina Saleem, la ragazza di origini pakistane uccisa appena ventenne dal padre che non approvava la sua volontà di vivere all’occidentale; nei giorni scorsi il fratello di Hina Saleem, Suleman, diventato capofamiglia dopo l’arresto del genitore, ha tolto la foto posta da un anonimo sulla lapide della ragazza, con questa motivazione.
In quella foto Hina era troppo spogliata, indossava una canottiera rosa e non è rispettoso apparire così su una tomba.
Durante la trasmissione di Rete4 Zona bianca Suleman ha anche aggiunto che il padre è pentito dell’omicidio di Hina Saleem – il Tribunale nella sentenza di appello ha confermato i 30 anni di reclusione per l’uomo – e che la sorellina minore, nata in Italia e cresciuta all’occidentale, quest’anno andrà in Pakistan per sposarsi con un uomo che non conosce.
Lei è d’accordo, compirà 18 anni. Non tutto dipende dalla religione.
Ha affermato Suleman Saleem. La ferocia nei confronti delle giovani donne islamiche che non accettano di piegarsi a famiglie integraliste però non conosce sosta, purtroppo; come sappiamo, non è ancora stato trovato il corpo della giovane Saman Abbas, la diciottenne scomparsa dalla provincia di Reggio Emilia ormai due mesi fa, anche se appare ormai certo che sia stata uccisa da uno zio per gli stessi motivi di Hina Saleem e Sana Cheema: non voleva sposarsi con un uomo deciso dalla famiglia, ma scegliere per sé.
Molto spesso, per le famiglie straniere che approdano in un paese nuovo, imparare a convivere serenamente con la cultura e le tradizioni del luogo che li ospita e che diventa la loro nuova casa non è facile.
Capita così che i primi ad apprendere meglio gli usi e i costumi del nuovo paese, a farli propri e ad adeguarvisi siano i figli, i ragazzi più giovani, soprattutto se nati lì o se trasferiti da molto piccoli; in generale, per i ragazzi è più facile non solo assimilare culture diverse da quella del proprio nucleo familiare, che comunque continua a essere rispettata, ma è certamente motivo di inclusione e socializzazione appropriarsi di quei modi di vivere e delle abitudini tipiche dei loro coetanei, anche solo per sentirsi parte del gruppo e non essere emarginato o discriminato.
Le cose, però, non sempre sono semplici, in particolare quando lo stile di vita perseguito dai figli cozza in modo importante con i precetti religiosi o culturali della famiglia di appartenenza; abbiamo spesso parlato dell’usanza, ancora in vigore presso molti popoli, del matrimonio combinato, tradizione ai nostri occhi arcaica e persino lesiva della libertà individuale consacrata dal diritto internazionale, eppure tuttora perno della società in moltissime aree del mondo. Ci sembra un fenomeno assolutamente lontano e remoto dalla nostra idea di famiglia finché ne leggiamo sui giornali o se ne sente parlare vagamente, ma spesso anche le ragazze che vivono nei nostri paesi, che frequentano le stesse scuole dei nostri figli, che lavorano o che escono fuori a divertirsi finiscono vittime di queste imposizioni da parte dei padri, ancora fortemente aggrappati alle proprie tradizioni al punto da voler decidere con chi dovrà passare l’intera vita la propria figlia.
E quando queste ragazze si ribellano, guidate dallo spirito di autodeterminazione e indipendenza che hanno acquisito vivendo fuori dal paese natio, assimilando appieno il potere della libertà decisionale che nella loro terra, improntata al patriarcato, probabilmente sarebbe stata loro negata, può succedere, purtroppo l’irreparabile.
Nel 2006 perse la vita Hina Saleem, una ragazza di origini pakistane, ma arrivata in Italia appena quattordicenne, uccisa dai parenti. La sua unica colpa, volersi uniformare alle abitudini occidentali, giudicate “sbagliate” dalla famiglia.
Mentre il 18 aprile è arrivata la notizia, terribile, dell’uccisione di Sana Cheema, anche lei pakistana di origine, ma cresciuta a Brescia, massacrata a soli 25 anni durante un viaggio nel suo Paese, presumibilmente perché intenzionata a sposare un italiano rifiutando così le nozze combinate che la famiglia aveva organizzato per lei. Sana è stata strangolata, come rivelato dai risultati dell’autopsia realizzata dal laboratorio forense del Punjab, il quale ha analizzato le analisi dopo la riesumazione del corpo, sepolto frettolosamente dai parenti, che hanno affermato che la giovane ha avuto un infarto.
Sana è dunque morta per strangolamento, lo hanno riferito i media pakistani che citano il rapporto dell’autopsia, riportato anche da Repubblica: gli esami dimostrano infatti che “l’osso del collo è stato rotto”, circostanza che porta a escludere l’ipotesi dell’infarto.
Nonostante ciò, nel febbraio del 2019 il tribunale distrettuale di Gujrat, nel Nord-Est del Pakistan, ha assolto il padre, il fratello, uno zio e la madre (11 gli imputati in tutto), per insufficienza di prove. E questo a dispetto del fatto che proprio padre, zio e fratello della ragazza avessero inizialmente confessato il suo omicidio, salvo poi ritrattare.
La notizia è stata commentata da Jabran Fazal, portavoce della comunità pakistana a Brescia: “Non so se il padre ora tornerà a Brescia. Aspettiamo le motivazioni della sentenza. In Pakistan c’è la pena di morte per l’omicidio e probabilmente non è stato individuato l’esecutore materiale del delitto di Sana“.
In Italia, come si legge in un documento di Fq Millenium pubblicato anche da Il Fatto Quotidiano, non esiste una legge sui matrimoni forzati, ma, grazie alla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne del 2011, questa tipologia di abusi rientra nel reato di maltrattamenti, puniti dall’articolo 572 del codice penale con una pena da 2 a 6 anni di carcere.
Nei centri antiviolenza e ai servizi sociali, sono decine le ragazze che chiedono aiuto e che cercano di scappare da unioni combinate contro il loro consenso. Vengono soprattutto da Pakistan, India o Bangladesh, e hanno tra i 16 e i 25 anni.
Un sistema di protezione ufficialmente non esiste, quindi se lo sono inventato le operatrici sociali, che “prelevano” le ragazze come testimoni di giustizia. Se la ragazza non riesce a uscire di casa spontaneamente, interviene un esterno, come un medico, una professoressa o un’amica, e si organizza una vera e propria scena con attori e comparse. Se per la legge la causa è persa qualora la ragazza avesse ormai varcato il confine nazionale, per il “servizio protezione“non è mai troppo tardi: cerca di smuovere tutti i canali di comunicazione clandestini aiutando le ragazze a trovare un pretesto per raggiungere l’aeroporto. Un’eccellenza nel settore è considerata l’associazione Trama di Terre, fondata a Imola nel 1997, che dal 2011 si è occupata di 49 donne: 31 dal Pakistan, 4 dall’Albania, 3 dal Bangladesh, 3 dal Marocco, 2 dall’India, una dallo Sri Lanka, una dalla Tunisia, una dalla Costa d’Avorio, una dall’Afghanistan, una dal Kurdistan, una dall’Iran.
Purtroppo, però, non sempre riescono a intervenire in tempo. Hina e Sana non sono infatti le uniche vittime di una follia cieca capace di trasformarsi in ferocia irrazionale, che spinge a uccidere il sangue del proprio sangue per una questione d’onore e credibilità e di annientare ogni parvenza di umanità, calpestando l’amore (sia quello familiare, che la libertà delle figlie di amare) per proteggere il proprio nome da un’onta ritenuta inaccettabile. Per il padre di Sana, come per quello di Hina, la devozione verso la propria cultura era più forte dell’affetto genitoriale, e le figlie dovevano pagare quella ribellione vergognosa alle regole di un paese che, pure, avevano abbandonato. Anche, forse, per trovare nuove prospettive di vita, nuove libertà e quel libero arbitrio di cui, però, sono state comunque private.
Nella gallery raccontiamo la loro storia ma anche quelle di molte altre ragazze, diventate vittime del loro stesso desiderio di liberarsi dal gioco di quella tradizione in cui non si riconoscevano, colpevoli solo di voler cambiare il proprio destino. O, almeno, di poterlo scegliere.
Sana Cheema era tornata in Pakistan per far visita ai parenti rimasti là; purtroppo ha trovato la morte, il 18 aprile del 2018, dopo aver rifiutato il matrimonio combinato propostole dal padre, e dichiarando di voler sposare un italiano. In un primo momento la versione dello sgozzamento della ragazza è stato sostituita da un’altra, in cui i familiari hanno asserito che Sana sarebbe morta per un infarto. Dopo i risultati dell’autopsia che hanno però fatto emergere che la ragazza avesse l’osso del collo rotto, il padre Ghulam Mustafa, avrebbe prima confessato di averla uccisa, con l’aiuto del fratello di Sana Cheema, salvo poi ritrattare. A febbraio del 2019 il tribunale pakistano ha assolto gli 11 imputati per insufficienza di prove. Nel 2023 si è però riaperto il processo in Italia nei confronti del padre e del fratello della giovane.
Hina Saleem, ventunenne, si era trasferita dal Pakistan a 14 anni, nel 1999, per ricongiungersi alla famiglia, che viveva a Sarezzo. Già nel passato Hina Saleem aveva avuto problemi con la famiglia per la sua integrazione rispetto al modo di vivere italiano, ed era anche fuggita di casa, firmando una denuncia per maltrattamenti e abusi. Aveva fatto anche altre due denunce, poi ritrattate al momento del processo e ricevendo persino un’accusa per calunnia, da cui è stata assolta dopo la morte. Hina Saleem lavorava in una pizzeria di Brescia e conviveva da alcuni mesi con Giuseppe Tempini, il fidanzato trentatreenne.
Hina Saleem venne attirata con un pretesto in casa del padre, e trovò ad attenderla alcuni parenti, mentre la madre Bushra Begun e gli altri cinque tra fratelli e sorelle erano in vacanza in Pakistan. Quattro persone furono implicate nella morte di Hina Saleem: il padre Mohammed Saleem, lo zio Muhammad Tariq (marito della sorella della moglie) e due cognati della ragazza, i fratellastri ventisettenni Zahid Mahmood e Khalid Mahmood, mariti delle due sorelle maggiori.
Hina Saleem venne uccisa con oltre venti coltellate, poi sgozzata e infine sepolta nell’orto di casa, con la testa rivolta verso La Mecca. A dare l’allarme fu proprio il fidanzato, preoccupato di non vedere tornare Hina Saleem a casa.
La giovane pakistana, che risiedeva con la famiglia in provincia di Reggio Emilia, è scomparsa alla fine di aprile del 2021 e da allora si sono perse le sue tracce. Gli inquirenti ritengono che sia stata uccisa dallo zio, Danish Hasnain, con la complicità di alcuni cugini, per il rifiuto della ragazza di sposare l’uomo che la famiglia aveva scelto per lei e la volontà di vivere la sua storia d’amore con il ragazzo che aveva in Italia.
Il suo corpo è stato ritrovato nel novembre del 2022, a 500 metri dalla casa in cui abitava, sepolto a tre metri di profondità.
Sanaa Dafani viveva a Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone, e voleva solo essere felice, come si sentiva da quando vivema insieme a Massimo. Ma il padre, El Kataoui, non poteva accettare la svolta occidentale di Sanaa Dafani. Il 15 settembre 2009 la sorprese mentre si trovava in auto col fidanzato, la ragazza tentò di scappare ma lui la raggiunse con un fendente alla gola. Morì dissanguata in un boschetto poco lontano.
Nel maggio 2012 Kaur Balwinde, una giovane donna indiana di 27 anni, viene strangolata e gettata nel Po dal marito, Kabir Singhj. La sua sola colpa, volersi vestire troppo all’occidentale.
Nel 2014, in Pakistan, Bhawna, studentessa di medicina ventunenne, ha rifiutato il matrimonio combinato dai genitori per sposare il ragazzo che amava, un programmatore informatico che aveva conosciuto due anni prima a una festa. Avevano celebrato le nozze il 12 novembre in un tempio di Connaught Place, nella speranza che la famiglia alla fine avrebbe accettato la loro scelta.
Ma così non è stato: i genitori di Bhawna hanno prelevato la ragazza dalla casa dei suoceri con il pretesto di organizzarle una grande festa, quindi a casa sia il padre che la madre l’hanno picchiata. Al suo rifiuto di divorziare, il padre l’ha strangolata.
Shilan aveva 21 anni quando è stata obbligata a sposarsi con suo cugino. Dopo aver rifiutato di pronunciare il “sì”, è stata uccisa con tre colpi di pistola alla testa, sotto gli occhi di chi l’accompagnava, il 13 marzo 2016. Il padre di Shilan, un curdo all’epoca cinquantenne, non sapeva nulla del destino della figlia finché non è rientrato ad Hannover, dove la famiglia si era rifugiata quando lei aveva 3 anni, mentre lui era rimasto in Iraq a lavorare.
Nel 2016 la giovane Maria Sadaqat è stata attaccata da un gruppo di persone nel villaggio di Upper Dewal, vicino alla capitale Islamabad, perché colpevole di non voler sposare il figlio del preside della scuola in cui lavorava. È stata torturata e bruciata viva. Lo sposo rifiutato era già divorziato e aveva il doppio dei suoi anni, per questo Maria ha rifiutato la proposta e ha lasciato il lavoro. Ma è stato tutto inutile, la loro ferocia l’ha comunque raggiunta.
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