Perché in pandemia sono aumentate le gravidanze non volute e quanto pesano sulle donne

1,4 milioni di gravidanze non volute durante la pandemia. Accessi a metodi contraccettivi e ad aborti sicuri negati a moltissime donne in diverse aree del mondo. Il lockdown fa pagare, ancora una volta, il prezzo più alto al genere femminile.

L’anno che abbiamo vissuto ha ovviamente stravolto le vite di tutti e tutte noi, ma le conseguenze più evidenti della pandemia sono ricadute sulle donne, sotto molti punti di vista.

Non solo, a fronte dell’emergenza economica seguente al lockdown mondiale, il numero di donne che ha perso il lavoro è sproporzionatamente più alto rispetto a quello degli uomini, come abbiamo visto in alcuni articoli, la quarantena forzata e l’isolamento hanno anche esposto le donne vittime di violenza a subire ulteriormente, nel silenzio delle mura di casa.

Ma c’è un ulteriore aspetto, che spesso viene sottovalutato, quello della natalità, che durante il periodo del Covid ha subito un’impennata, tanto che qualcuno ha pensato di coniare il termine “covibabies“, a indicare proprio i bambini nati nel bel mezzo della pandemia.

Certo, generalmente la nascita di un bambino è un evento gioioso, ma realisticamente nel mondo non sempre è così, se pensiamo a tutte quelle gravidanze non pianificate e non volute che, in alcuni Paesi, rappresentano davvero un’enorme difficoltà per le donne.

Secondo una ricerca condotta da UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, ben 12 milioni di donne non hanno potuto avere accesso ai servizi di pianificazione familiare, con la conseguenza di avere 1,4 milioni di gravidanze indesiderate. Per “servizi di pianificazione familiare” si intendono in primis i metodi contraccettivi, già difficilmente reperibili in alcune aree del mondo per ragioni economiche, ma anche socioculturali, cosa che rende difficile, in condizioni normali, attuare un serio controllo delle nascite che invece sarebbe indispensabile per consentire alle donne di scegliere quando e se diventare madri.

Ma c’è di più: secondo Stellah Bosire, co-direttore esecutivo di UHAI – East African Sexual Health & Rights Initiative, che ha analizzato la situazione in Kenya, la mancanza di contraccettivi, il coprifuoco e il fatto che i medici abbiano dato la priorità alla cura del Covid ha fatto si che i servizi riguardanti la salute sessuale e riproduttiva fossero lasciati in secondo piano.  A The Lily Bosire ha detto che la situazione si è fatta critica soprattutto per quanto riguarda la fornitura di servizi, pesantemente influenzata dall’emergenza sanitaria, e per la penuria di farmaci, ad esempio quelli usati per gestire l’HIV, che da anni rappresenta una piaga endemica nel Paese.

A maggio del 2020, l’organizzazione internazionale di pianificazione familiare Marie Stopes ha dovuto sospendere i suoi servizi di assistenza in Kenya a causa delle restrizioni imposte dal Covid, mentre un mese più tardi il governo keniota e gli operatori sanitari pubblici hanno riferito che migliaia di ragazze adolescenti, già fortemente penalizzate sotto il profilo dell’accesso all’istruzione, costrette in casa, senza accesso ai servizi di pianificazione della riproduttività, e spesso vittime di abusi, sono rimaste incinte durante il lockdown.

Non va meglio in Asia, soprattutto nella parte meridionale del Paese; se ad aprile la International Planned Parenthood Federation ha dichiarato di aver chiuso 5.633 delle sue sedi, quella parte del continente asiatico è stata quella più colpita, con 1.872 chiusure. L’organizzazione Marie Stopes ha ovviamente puntato il dito anche sulla questione degli aborti non sicuri, poiché non garantiti da strutture come la sua, parlando di 1,5 milioni di gravidanze interrotte in maniera non sicura, e di 920.000 donne indiane che, a causa del rigido lockdown imposto nel Paese, potrebbero non poter più neppure accedere ad alcun servizio di IVG. Unitamente a questo, in Asia c’è stata anche una profonda crisi delle fabbriche produttrici di preservativi, molte delle quali hanno dovuto chiudere per la pandemia.

Ma la crisi della salute riproduttiva non riguarda solo i Paesi cosiddetti a basso reddito: negli Stati Uniti, ad esempio, il 36% delle donne appartenente alle fasce economiche più disagiate ha subito ritardi o non è stato in grado di ricevere assistenza sanitaria adeguata sotto il profilo della contraccezione.

Gli effetti delle gravidanze non volute sulle donne

Ovviamente dover affrontare una gravidanza non pianificata ha conseguenze importanti su queste donne; se già prima della pandemia circa 270 milioni di donne in tutto il mondo dovevano affrontare problemi quotidiani per accedere ai contraccettivi moderni, il peggioramento generale delle condizioni economiche e i blocchi imposti dal lockdown hanno naturalmente esacerbato la situazione; senza contare che la chiusura forzata di quei punti medici cui le donne potevano rivolgersi per avere assistenza, o il dirottamento degli sforzi sanitari sull’emergenza Covid hanno esposto le donne a seri rischi di aborto (non praticati in sicurezza), di emorragia postpartum o di preeclampsia.

Insomma, la pandemia potrebbe vanificare gli sforzi compiuti dalle ONG in questi anni proprio per diffondere la cultura del controllo delle nascite nei Paesi a basso reddito (molti dei quali concentrati nell’Africa subsahariana), già interessati dal 94% delle morti materne complessive e con rischi tre volte più alti, per le donne, di avere gravidanze indesiderate.

Le stime che abbiamo non ci danno un quadro completo di ciò che accadrà con i cambiamenti economici a lungo termine causati dalla pandemia – ha spiegato Jennie Greaney, specialista tecnico dell’UNFPA – Molte donne pagano di tasca propria per i contraccettivi, ma con la contrazione economica non sappiamo per quanto ancora potranno permetterselo.

Come i governi e le ONG hanno cercato di aiutare

Un piccolo spiraglio di luce però c’è. L’UNFPA punta infatti a metodi contraccettivi relativamente nuovi, che hanno impedito di avere un quadro ulteriormente aggravato durante la pandemia, ovvero quelli che le donne possono iniettarsi da sole; nel solo Lesotho, ad esempio, sono stati formati centinaia di operatori sanitari che potessero insegnare alle donne come usare questi strumenti. In Uganda, gli operatori della sanità pubblica hanno distribuito preservativi gratuiti e prodotti per la salute riproduttiva sovvenzionati dal governo tramite un’app, SafeBoda.

Una soluzione simile è stata pensata dal governo indonesiano, che ha inviato porta a porta operatori sanitari che consegnassero preservativi e pillole, assieme agli aiuti alimentari.

In Colombia, l’organizzazione sanitaria Fundacion Oriéntame ha pensato di fornire un servizio di videochiamata alle donne che intendono abortire, per capire se intendono davvero andare avanti e guidarle attraverso l’assunzione della pillola abortiva, monitorando continuamente il loro stato di salute via chat o via WhatsApp.

In California è stato approvato il servizio di contraccezione drive-through, mentre alle farmacie è consentito fornire contraccettivi autoiniettabili; come in Colombia, un aiuto fondamentale viene dalla cosiddetta “videomedicina”, visto che il 24% delle donne che usano la pillola richiedono virtualmente la propria prescrizione.

La situazione italiana

Per il momento non si hanno dati certi su come i provvedimenti restrittivi abbiano influito sul tasso di riproduttività in Italia, anche se i primi scenari sembrano dirci che il trend si sia mantenuto invariato, e quindi in negativo, rispetto agli altri anni. Questo il grafico pubblicato da Neodemos che riguarda il decennio 2010-2020.

Fonte: neodemos.info

L’Italia potrebbe quindi affrontare il problema opposto: non la mancanza di accesso ai servizi sanitari primari indispensabili per controllare le nascite, ma la paura di mettere al mondo figli in una situazione economica e sociale estremamente precaria.

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