L'umanità che non siamo e la maledizione di Primo Levi

Dai "mai più" agli "andrà tutto bene" fino alla "stanchezza empatica" e alla maledizione di Primo Levi. Come siamo diventati gli esseri disumani, troppo disumani, che assistono a un genocidio in mondovisione.

Le persone che suonavano e ballavano sui balconi, gli striscioni che promettevano “andrà tutto bene”, i canti collettivi alle finestre, i gesti di solidarietà verso chi era più fragile: oltre il dolore e la paura, durante la pandemia di Covid-19 l’umanità sembrava avesse riscoperto se stessa, in un sentimento di empatia collettiva.

Eravamo distanti, ma vicini. Eravamo umani, o almeno lo sembravamo, mentre scoprivamo una capacità inedita di soffrire e gioire insieme.

Un’occasione sprecata

Che ne è oggi di quella ritrovata, e già perduta umanità? 
Possiamo dirlo? Diciamolo: che occasione sprecata.

Abbiamo visto la natura riprendersi i suoi spazi, dimostrandoci che, oltre a non essere necessari, siamo la specie più distruttiva di tutte, anche del virus che ci stava falcidiando.

Eppure, a distanza di pochi anni eccoci qua: abbiamo introdotto nuove tipologie di reato perché ci spaventano di più i ragazzi che gettano vernice lavabile sulle opere d’arte del fatto di non avere un futuro, in cui ammirare quelle stesse opere, o per crearne di nuove. Così come ci spaventano più le persone che manifestano nelle piazze rischiando di essere arrestate (perché nel frattempo anche la libertà di manifestare e dissentire è diventata criminale), dei corpi devastati, delle case rase al suolo, dei bambini smembrati e del genocidio in corso in Palestina.

Com’è possibile la nostra indifferenza collettiva?

Com’è possibile che le piazze restino inascoltate e insultate, dalla politica certo, ma anche da tante, troppe persone cui basta la “giustificazione” del 7 Ottobre che, ammessa e non concessa più l’ignoranza storica di tutto quello che è accaduto nei decenni prima, non può essere il nullaosta per compiere crimini di guerra e pulizia etnica.

La sociologia spiega molto bene come i traumi collettivi non rafforzino sempre il tessuto sociale, ma piuttosto accelerino processi di deumanizzazione e disconnessione già in atto. L’ansia generalizzata, l’isolamento forzato nel caso della pandemia e la paura del futuro hanno favorito il ritorno a una logica individualistica, dove la sopravvivenza del singolo prevale su quella collettiva. Secondo lo studio condotto da Zygmunt Bauman, la modernità liquida ha mostrato il suo volto più fragile e cinico: quello di un’umanità esasperata dall’incertezza e disorientata, pronta a guardare solo al proprio immediato orizzonte.

Secondo il sociologo David Harvey, la crescente incapacità di provare empatia verso l’altro è frutto di una sorta di anestesia collettiva. La fatica emozionale vissuta durante il Covid avrebbe reso semmai ancora più difficile accogliere le tragedie successive con la stessa intensità di partecipazione e dolore. Viviamo in un’epoca dove l’iperconnessione mediatica rende visibili tutte le tragedie del mondo, ma la nostra capacità di reagire emotivamente a esse si è ridotta.

A forza di essere esposti a immagini sempre più destabilizzanti, violente, esplicite, dolorose, ci siamo assuefatti: la sofferenza degli altri si è trasformata in una narrazione che scorre su schermo, non ci tocca più; o ci tocca in pochi.

La deumanizzazione delle persone arabe

Nell’anti-arabismo e nell’islamofobia intrinseca all’Occidente, si inquadra del resto il doppio standard con cui giudichiamo il conflitto russo-ucraino, con la logica dell’invasore e dell’invaso che ha diritto di difendersi, e l’invasione israeliana dei territori arabi, attuata tramite la sistematica sospensione del Diritto internazionale e senza che gli organi preposti al suo rispetto facciano nulla di concreto.

La deumanizzazione delle persone arabe è uno dei capitoli più tragici di questa indifferenza. Spesso rappresentate dai media e dai discorsi pubblici come una massa indistinta di “altro”, senza volto né storia, le persone arabe sono da sempre private della loro umanità.

Diversi studi sociologici, come quelli di Arun Kundnani e Nadine Naber, hanno esplorato il legame tra islamofobia e la costruzione mediatica dell’arabo come figura “pericolosa” o “inferiore”.

La propaganda anti-musulmana, diffusasi in particolare dopo l’11 Settembre 2001, ha rafforzato l’idea che le persone di fede islamica siano una minaccia costante, incapaci di integrarsi nelle società occidentali o di condividere valori umani fondamentali. Questo crea una spaccatura tra il “noi” e il “loro”, dove i diritti umani degli arabi e dei musulmani vengono facilmente trascurati o violati senza alcuna reazione.

Il sociologo David Theo Goldberg ha descritto questo processo come una forma di “razzializzazione del rischio”, in cui le persone arabe e musulmane sono associate a concetti di pericolo e insicurezza, riducendo così la loro umanità agli occhi dell’opinione pubblica. Perché quando le persone vengono percepite come una minaccia, le tragedie che le colpiscono diventano secondarie o perfino giustificabili.

La deumanizzazione dei popoli arabi, del resto, non è una conseguenza della storia recente, ma si inserisce semmai in un contesto più ampio di xenofobia e islamofobia che, come illustra lo studioso Ghassan Hage, ha radici profonde nella storia coloniale e nel bisogno occidentale di creare un “nemico” e un “pericolo” per giustificare il proprio sistema oppressivo, di sfruttamento, occupazione territoriale, schiavismo e subordinazione.

Il “mai più” dell’Occidente alla Shoah e al nazi-fascismo

Può tutto questo razzismo storicizzato e sistemico lasciarci indifferenti di fronte alle immagini che arrivano da Gaza? Sì, evidentemente.

Abbiamo giurato “mai più”: il mondo occidentale moderno e le sue istituzioni sono il frutto di un “mai più” sottoscritto dalle stesse nazioni che oggi finanziano il genocidio palestinese.

Abbiamo detto mai più alla Shoah, mai più al nazi-fascimo; ma è evidente che sia un mai che non sappiamo rispettare, se può consumarsi sollevando giusto un po’ di indignazione l’olocausto palestinese.

La Storia interrogherà la nostra indifferenza

La Storia potrebbe fare di peggio, perché se davvero pensiamo di poter decidere che la vita di un nostro figlio vale più di quella di migliaia e migliaia di figli perché palestinesi, libanesi, cisgiordani, “altro”; allo stiamo implicitamente ammettendo che un domani altri possano arrogarsi lo stesso diritto di deumanizzazione dei nostri figli.

Di più: stiamo allevando una generazioni di sopravvissuti e sopravvissute all’indicibile, mutilati nel corpo, nell’anima e negli affetti, all’odio nei confronti di tutto ciò che noi siamo, in quanto occidentali.

Ne risponderanno i nostri figli, se non sapremo spezzare il vortice nero della nostra indifferenza.

Dalla “stanchezza empatica” alla disumanità

La sociologa Arlie Hochschild ha parlato di “stanchezza empatica”, un fenomeno che ci ha reso meno sensibili alla sofferenza di chi percepiamo come estraneo alla nostra comunità immediata.

E se va riconosciuto che è umano, troppo umano, quello che cantava De André:

e per tutti il dolore degli altri è dolore a metà;

è disumano, troppo disumano, che lo sterminio di un intero popolo abbia il nostro silenzio, i nostri finanziamenti e l’avvallo di un sistema di diritto internazionale che, mentre parla di democrazia e diritti umani, viene meno a se stesso.

Forse è tempo che noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera
il cibo caldo e visi amici, si rilegga Primo Levi perché “questo è ciò che accade oggi, e prima che la sua maledizione si avveri:

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

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