Se partorire a 52 anni ti rende "egoista": gli orribili commenti a una mamma di Castellammare di Stabia

Una donna ha partorito la sua bambina a 52 anni, ma per gli utenti dei social il suo è stato solo un gesto di egoismo. Peccato che gli stessi giudizi non valgano mai per gli uomini che diventano padri "over".

Una donna, resa nota solo con il nome di Emilia, ha dato alla luce una bambina all’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia. La notizia del parto è stata riportata da buona parte dei media soprattutto per un particolare, ovvero l’età della neomamma, 52 anni, tanto che più di un giornale ha parlato del parto definendolo “da record”.

Questa narrazione è però problematica, sotto diversi punti di vista, e contribuisce suo malgrado ad alimentare tutta una certa retorica della maternità che tende a stigmatizzare la protagonista di questa vicenda. Non sono infatti mancati, sulle pagine social dei media che hanno riportato la notizia, i commenti di chi giudica “troppo vecchia” la donna, e non risparmia parole come “egoista”.

“Mammanonna”, si legge ad esempio fra i commenti sulla pagina Facebook di Repubblica; e ancora “Povera bambina, a 20 anni avrà una madre di 70”, a cui un utente risponde “Sperando che la mamma ci arrivi”. “Ha partorito direttamente il nipote? O forse un ragazzo di 20 anni”, si domanda qualcun altro ironicamente; “Per tutto c’è un tempo secondo me, e mettere al mondo un figlio a 52 anni è da egoista, detto ciò i bambini sono gioia”, frase che somiglia un po’ alla fatidica “non sono razzista, ma”.

Primipara attempata è il termine usato per indicare le donne che diventavano madri oltre i 35 anni, una definizione che dovrebbe essere abbondantemente superata, soprattutto visto il contesto socioculturale in cui viviamo, che spesso impedisce letteralmente alle donne che desiderano avere un figlio affrontare la maternità prima di una certa età, ovvero quella in cui riescono a raggiungere una discreta stabilità economica, lavorativa o abitativa.

La necessità di alcuni di stabilire una soglia anagrafica “massima” accettabile per fare un figlio dipende da questioni di ordine medico, ovvero dai rischi maggiori che possono derivare dal fare un figlio dopo i 30 anni; rischi che, tuttavia, come ha spiegato la dottoressa Lucky Sekhon, non aumentano dall’oggi al domani; insomma, gli ovuli delle donne, per citare le sue parole, “non andranno improvvisamente ‘a male’ scoccati i 30 anni”.

Senza contare, ovviamente, che al netto dell’aumentata percentuale di rischio, non è escluso a priori che donne di età inferiore ai 30 anni mettano al mondo solo figli sani. A incidere, insomma, sono diversi fattori, fra cui ereditarietà, genetica, predisposizione, e anche una discreta dose di fortuna.

Chi parla di gravidanze dopo i 40 anni come di “innaturali”, inoltre, forse dimentica che proprio la natura stabilisce il momento in cui una donna non è più in grado fisiologicamente di procreare, non i giudizi.

Alle persone – a una parte di esse, perlomeno – non va però proprio giù l’idea che una donna “di una certa età” metta al mondo un figlio, e non per le ragioni mediche poc’anzi elencate; lo abbiamo visto, ad esempio, con la recente gravidanza della coreografa Veronica Peparini, incinta di due gemelle a 52 anni.

Se fare un figlio a 18 o 20 anni viene giudicato un gesto “da irresponsabili”, e si ritiene di dover far sapere alla madre giovanissima che “quel figlio lo cresceranno i suoi genitori, perché lei non ne è capace”, farlo a un’età più matura viene invece considerato un gesto “egoistico”, fatto per “non restare sole” o “avere qualcuno che le accudisca quando saranno anziane”. Insomma, come spesso accade quando si tratta di comportamenti femminili, qualsiasi cosa si faccia si sbaglia, a meno che non si stia dentro rigidi confini socialmente definiti, i quali, più ci si avvicina, più si moltiplicano (devi fare un figlio, devi farlo dopo una certa età, prima di diventare “troppo vecchia”, non puoi farne solo uno, ma non farne troppi, falli solo con un uomo, ma solo se non sei una persona con disabilità…).

Regole che se non rispettate comporteranno il giudizio degli altri, perpetrando così il costante controllo che la società attua sul corpo delle donne.

Non a caso, infatti, questi discorsi valgono solo ed esclusivamente per le donne, mentre è completamente normalizzato il fatto che gli uomini possano avere figli anche in età molto avanzata.

Basti pensare a uomini come Mick Jagger, Rod Stewart, Richard Gere e a tutta quella schiera di celebrità (e non) che sono diventati padri ben oltre i 50 anni, per rendersi conto del doppio standard che vige nei confronti di maternità e paternità.

Questo perché si continua a vedere la maternità come ammantata di una luce sacra, e la madre come l’essere cui spettano in toto il compito di crescita, educazione e accudimento dei figli, mentre la paternità finisce per essere relegata a mero accessorio; per gli autori e le autrici di questi commenti, in sostanza, il compito del padre si esaurisce nel momento in cui lo spermatozoo esegue il compito cui è destinato.

Nessuno, infatti, si è preoccupato di sapere che la neomamma di Napoli ha un compagno con cui da tempo tentava di portare a termine (invano) una gravidanza, fino alla nascita della bambina, il 26 gennaio scorso. E proprio in quest’ultimo aggettivo utilizzato, “invano”, sta il terzo nodo della questione: perché nessuno, neanche chi è così pronto a ergersi giudice delle situazioni pur senza conoscerle, può effettivamente sapere i motivi per cui una donna diventi mamma a 40 o 50 anni. Spesso dipende da una precisa volontà, altre volte da difficoltà oggettive che hanno portato a lungo una coppia a desiderare un figlio senza poterlo avere, non prima di quell’età. Dietro a una maternità cosiddetta “tardiva” possono esserci anni di prove, di tentativi, di soldi spesi in fecondazione artificiale, di preghiere, di speranze, di delusioni e di disillusioni, di lacrime. Ridurre il tutto a una mera questione di egoismo è davvero di una povertà mentale disarmante.

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