Perché non ha senso parlare di maschicidio, ma di violenza sugli uomini sì
Chiamiamo le cose col loro nome: la violenza sugli uomini esiste, ma non ha senso parlare di maschicidio. Per questi motivi.
Chiamiamo le cose col loro nome: la violenza sugli uomini esiste, ma non ha senso parlare di maschicidio. Per questi motivi.
Da quando il termine femminicidio è diventato, purtroppo, di uso quotidiano più d’uno, mascherandosi dietro l’idea del purismo grammaticale, ne ha contestato l’esistenza. Fra queste, persino una “signora” della cronaca nera come Franca Leosini, che in un’intervista per Open ha dichiarato
Sono tragedie umane, però, mi lasci dire una cosa. Basta parlare di femminicidio. Mi vengono i brividi a sentire questa parola, è proprio brutta dal punto di vista lessicale. Si tratta di un omicidio, punto. E poi, mi scusi, ma esiste il maschicidio? Chi viene ucciso è una vittima a prescindere dal sesso.
Peccato che le cose non stiano proprio così, visto che la parola femminicidio ha il compito, preciso, non solo di designare un fenomeno – nella fattispecie l’uccisione di donne – ma anche di diffondere una maggiore consapevolezza del problema, spingendo verso una sua progressiva eradicazione. Leggendo da definizione di Devoto-Oli 2009, dopo che il termine è “sbarcato” nel nostro lessico da un calco dall’inglese datato 2001, si capisce che per femminicidio si intende
qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.
È la sovrastruttura patriarcale, di cui la nostra società è tuttora impregnata, a rappresentare ciò che sta alla base dei femminicidi, ed è il motivo per cui non ci si può limitare a parlare “semplicemente” di omicidi. Ciononostante, ci sono giornali che si sono spesi reclamando per l’inserimento, nel vocabolario, della parola maschicidio, come contraltare a femminicidio, e persino libri usciti sull’argomento. Ne è un esempio Il maschicidio silenzioso, scritto da Barbara Benedettelli, candidata alla Camera con Fratelli d’Italia nel 2013, e attualmente presidente dell’associazione L’Italia Vera.
Tuttavia, proprio come la tendenza dei bianchi di equiparare lo slogan “All lives matter” a quello di “Black lives matter” non serve a mettere davvero in luce il problema – lo sappiamo che tutte le vite valgono, ma in questo caso si sta parlando di quelle dei neri, tolte in quanto neri – allo stesso modo mettere sullo stesso piano due generi di violenza (che esistono entrambi), come se la loro natura, o meglio la loro origine, fosse identica, ha il solo risultato di togliere importanza a uno – i femminicidi – e, in un certo qual modo, di sfruttare la gravità della violenza sugli uomini – che esiste – solo per questo scopo.
Gli uomini non vengono uccisi perché vittime di un sistema socioculturale che a lungo li ha soggiogati, annientando la loro identità; e questo non significa negare che anche loro possano essere vittime di violenza, ma solo che non ha senso, per questi motivi, usare la parola maschicidio per descrivere questo tipo di violenza.
Gli uomini possono essere vittime di violenza, perpetuate da donne, lo sappiamo. Abbiamo intervistato William Pezzulo, sfregiato con l’acido dall’ex fidanzata, ma come lui, nel mondo, ci sono tantissimi uomini che hanno subito vessazioni, abusi, molestie. Il più delle volte senza denunciare, per orgoglio, per la paura di non essere presi sul serio (“Picchiato da una donna? Ma dai, veramente?”), perché a loro volta vittime di quella stessa sovrastruttura patriarcale che causa i femminicidi.
La scarsa volontà di denunciare fa sì che il problema rimanga ancora molto sommerso. Gli studi in merito sono pochissimi e perciò anche trovare soluzioni non è facile.
Per quanto sia una realtà ancora socialmente poco accettata e conosciuta, e quindi anche i centri di ascolto antiviolenza fatichino a decollare, per aiutare gli uomini vittime di soprusi è nata, nel 2013, Ankyra, un’associazione che si occupa proprio di fornire supporto a mariti, fidanzati, ex compagni, padri che subiscono vessazioni e violenze di ogni genere, così come accade per le donne.
Quello che è importante segnalare è che la lotta nei confronti della violenza maschile e quella contro la violenza femminile non sono in competizione tra loro. Parlare di una non nega l’altra, ma al tempo stesso sarebbe riduttivo agglomerarle in un unico calderone “anti-violenza” in quanto hanno peculiarità diverse che necessitano approcci diversi. Negli ultimi tempi, molti uomini accusano i movimenti femministi di interessarsi solo alla violenza contro le donne, come se questo bastasse e negare l’esistenza di quella contro gli uomini. In realtà, innanzitutto, non è vero e inoltre è naturale che le donne agiscano su ciò che conoscono direttamente e che le riguarda, ciò non toglie che anche gli uomini possano iniziare ad attivarsi per combattere le proprie battaglie. Dovrebbe essere una cooperazione verso un unico obiettivo e non una “gara” a chi soffre di più.
Come riportato da Wikipedia, in Italia al momento sembra esserci una sola ricerca riguardante il tema, che però è stata contestata nel metodo da alcuni gruppi scientifici. Si tratta della ricerca a opera dell’équipe del docente di medicina legale Pasquale G. Macrì del 2012.
Il campione comprendeva 1.058 uomini, di età compresa tra i 18 ed i 70 anni, che dovevano rispondere a una intervista telefonica. I dati riportano le proiezioni delle percentuali di violenze subite, perpetrate da donne nel corso della vita dei soggetti intervistati, e sarebbero così suddivise: il 24,3% del totale avrebbe subito una violenza fisica, il 18,7% almeno una violenza sessuale, il 29,7% una violenza psicologica, il 12,3% un atto persecutorio.
Un’altra ricerca del 2015, fatta nell’ambito del progetto dell’Unione europea Daphne III sulla violenza nelle dinamiche di coppia, incentrata su un campione di giovani tra i 14 e i 17 anni, riporta che i ragazzi che hanno subito una forma di violenza sessuale sono tra il 9% ed il 25%.
Per quanto riguarda appunto più in specifico le molestie sessuali subite da uomini, il dato è stato rilevato anche dall’ISTAT nell’indagine degli anni 2015-2016: in essa si stima che le abbiano subite 3 milioni 754mila uomini nel corso della loro vita, ovvero il 18,8% della popolazione maschile italiana. Gli autori di queste molestie sono nel 23,7 % dei casi, donne.
Altre ricerche, come quella condotta da Strauss nel 2008, riportata da Ankyra, hanno mostrato come le donne sembrino prediligere un’aggressività di tipo indiretto o relazionale, che può declinare in una “violenza nascosta” allo scopo di stabilire il controllo sul partner.
Le donne sembrano maggiormente propense ad adottare un’aggressività di tipo indiretto, psicologico, inducendo, ad esempio, all’isolamento sociale, mentre gli uomini dimostrano maggiore inclinazione nei confronti della violenza fisica.
L’Intimate Partner Violence, IPV, comprende una serie di comportamenti aggressivi e coercitivi, che includono danni fisici, abusi psicologici, violenza sessuale, isolamento sociale, stalking, intimidazione e minacce, perpetrati dall’aggressore, sottolinea una ricerca guidata da Kimberg e ripresa su Ankyra, al fine di assumere il controllo sull’altro. Come abbiamo detto, le ricerche italiane sul fenomeno della violenza subita dagli uomini sono pressoché nulle, ma un’indagine dell’Osservatorio Nazionale sulla Violenza Domestica, riferita alla sola provincia di Verona, che ha analizzato il fenomeno della violenza domestica in un determinato arco cronologico, ha rilevato che il numero di vittime che consideravano gli episodi di violenza domestica in un determinato arco temporale, riguardava al 64,8% le donne, al 33,9% gli uomini; nel 30% dei casi si era trattato di “violenza reciproca”, ossia in cui entrambi erano responsabili.
Un aspetto rilevante è che gli uomini difficilmente si percepiscono come vittime di IPV, perciò non denunciano e non chiedono aiuto, rimanendo nella relazione violenta per diversi motivi, fra i quali il timore di perdere una serie di diritti che il rimanere nella coppia assicura loro, in primis, ovviamente, per ciò che riguarda i figli: la paura di venire allontanati da loro è una delle più forti, ed è una delle minacce più frequenti mosse dalle donne.
È con il termine Battered Husband Syndrome che, nel 1978, la sociologa Suzanne Steinmetz indicava la casistica degli uomini oggetti di vessazioni di diversa natura, sia psicologiche, economiche o fisiche, da parte di una donna, solitamente la compagna. Nel caso della donna violenta, infatti, molte ricerche sulla vittimizzazione maschile riscontrano che la violenza psicologica ricorra più frequentemente rispetto alla fisica, e risulti più duratura.
Fra queste sono segnalate anche le false denunce di abuso nei confronti dei figli, mirate ad averne la custodia esclusiva o prevalente in caso di separazioni particolarmente conflittuali, le false denunce di stalking fatte allo stesso scopo e la cosiddetta alienazione parentale, ovvero l’atteggiamento della madre teso a mettere in cattiva luce l’ex coniuge agli occhi del figlio.
Una ricerca statunitense condotta da Hines nel 2007, citata dallo studio di Ankyra, spiega che la minaccia di “portarsi via i bambini” è stata usata nel 67,3% dei casi di maltrattamento contro i partner. I figli, naturalmente, finiscono per essere strumentalizzati al fine di ferire o punire il partner.
Proprio le donne che agiscono in maniera simile sarebbero affette da determinate patologie o sintomi, come la Sindrome di Medea o la Sindrome di Munchausen per procura.
Come riporta Ankyra, le donne che tentano di estromettere il padre dalla vita del figlio, con l’intento di prendere il possesso totale dei propri figli, ha spesso una spiegazione psicopatologica, poiché in questo caso molte riescono ad arrivare all’omicidio del partner, proprio al fine di prendere il controllo sui figli in maniera esclusiva.
Se la sindrome di Munchausen porta chi ne è affetto a fingersi malato per guadagnarsi l’empatia e le attenzioni di chi lo circonda, nella SMP si cerca di ottenere il medesimo effetto agendo sul figlio: si tratta infatti di una forma di maltrattamento per “eccesso di cura”, resa possibile solo se culturalmente si ha una preparazione scientifica e medica piuttosto elevata; i genitori, o inventando sintomi e segni che i propri figli non hanno, o procurando sintomi e disturbi, ad esempio attraverso la somministrazione di sostanze dannose, li espongono a una serie di accertamenti, esami, interventi che finiscono per danneggiarli o, nei casi più tragici, con l’ucciderli.
Come spiega Meadow in una ricerca del 1977, “La conseguente malattia del bambino tende a ripristinare le relazioni coniugali a spese del figlio“. Secondo gli studiosi la SMP sarebbe tipica delle madri, che tuttavia non vengono classificate come affette da qualche patologia psichiatrica, ma semmai dal Disturbo di Personalità. È in questo modo che le donne richiamano l’attenzione su di sé, tramite il figlio “malato”, al fine di crearsi il personaggio, sostiene Meadow, di madre che si è donata completamente ai figli, costruendo una propria immagine sulle loro presunte patologie. “Il genitore sta cercando di ottenere qualcosa attraverso il figlio. Quel qualcosa spesso sono attenzioni“.
Gli studi sul bullismo tendono a sottolineare che maschi e femmine sono ugualmente coinvolti, ma, mentre le prepotenze maschili si esplicano in atti fisici (spinte, sputi, schiaffi), le prepotenze femminili sono basate sull’esclusione e l’isolamento sociale. Anche qua, però, sussiste una differenza rilevante: a parti invertite rispetto allo stalking, i bulli maschi rivolgono le loro vessazioni a maschi e femmine, le ragazzine solo verso altre ragazzine.
A proposito del mobbing, invece, una ricerca condotta dall’European Agency for Safety and Health at Work nel 2003 ha riportato che le donne sono vittime di intimidazioni e di mobbing più spesso degli uomini, eppure molte ricerche in ambito psicologico non hanno rilevato una maggiore esposizione delle donne rispetto ai colleghi uomini. Altri studi (UNISON) mostrano poi come gli uomini siano, nella gran parte dei casi, i perpetratori di azioni mobbizzanti, forse perché occupano posizioni dirigenziali più delle donne, e ciò potrebbe agevolare le azioni di mobbing.
Ma non si può non evidenziare, sottolinea Ankyra, come molto dipenda dalla percezione di sentirsi vittima e, ancora una volta, dall’atteggiamento recalcitrante maschile di considerarsi tale. In generale, le ricerche condotte negli ultimi anni parlano soprattutto di rapporto up-down nei luoghi di lavoro e di esercizio della leadership, visione secondo cui sia uomini che donne possono essere mobber, oppure mobbed.
A fronte di questi dati appare subito evidente quale sia il problema maggiore: sono troppo pochi.
La sovrastruttura patriarcale innesca il circolo vizioso in cui più l’uomo è restio a denunciare, più la società si disinteressa del problema. Occorre uno sforzo collettivo per far sì che queste sovrastrutture decadano, in modo tale da portare alla luce le violenze sommerse ai danni degli uomini, senza che però questo metta in ombra l’enorme problema della violenza contro le donne, le quali non solo rappresentano comunque le vittime colpite di più, ma sono anche soggette a un tipo di violenza, quella fisica, che le mette più spesso in situazioni rischiose per la vita stessa.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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