In questi giorni di campagne elettorali ad personam, si è parlato tanto di “devianze giovanili” e di come lo sport possa contribuire a sanarle.

L’idea è stata condivisa da Giorgia Meloni, che si ispira a una campagna che l’Islanda ha avviato nel lontano 1992, riuscendo a ridurre la percentuale di alcolismo tra i giovani dal 48% al 5%.

E già qui, ancora prima di capire come l’Islanda ci sia riuscita, c’è già un punto confuso. L’isola vichinga si è infatti impegnata a contrastare la dipendenza da alcol e droga dei più giovani, mentre la leader di Fratelli d’Italia ha inglobato nelle “devianze” anche disturbi alimentari, ludopatia, baby gang, bullismo, autolesionismo e hikikomori.

Un mix di fenomeni molto diversi tra loro, tanto che raggrupparli genera inevitabilmente una confusione concettuale che facilita ogni possibile manipolazione del discorso.

Su quanto questo termine sia scorretto e sia stato scelto in modo oculato per veicolare uno specifico messaggio politico sono state spese molte parole, alcune anche parecchio controproducenti, ma credo non servano luminari per far comprendere che alcune di queste “devianze” sono in realtà patologie, che non meritano (cito da Wikipedia) “sanzione, disapprovazione, condanna o discriminazione” destinate invece ai comportamenti che “violano le norme di una collettività”.

Chiarito questo punto però, concentriamoci sulla luna e non sul dito che la indica, per quanto il dito sia stato ingioiellato proprio per distrarci: il “diritto allo sport” può davvero aiutare a sanare tutte queste problematiche giovanili?

Dati relativi al 2020 affermano che il 18,2% dei ragazzi e il 18,8% delle ragazze fra gli 11 e i 17 anni hanno consumato almeno una bevanda alcolica all’anno.

Se dovessimo soffermarci solo sul consumo d’alcol, quindi, siamo distanti dal 48% dell’Islanda pre 1992, ma il discorso necessita un ragionamento più ampio.

Innanzitutto, in cosa consiste il modello islandese?

Tutto nasce dalle tesi del professore di psicologia Harvey Milkman, che metteva in correlazione il consumo di alcol e droghe alla predisposizione allo stress. Le sue idee colpirono il governo dell’isola, che chiese al professore di studiare un progetto. Da qui nacque Youth in Iceland, un ambizioso programma nazionale che coinvolgeva genitori e scuole.

Il piano si basava sulla strategia di ridurre i fattori di rischio e aumentare quelli di protezione, in breve una classica strategia “del bastone e della carota”.

Da un lato infatti venne attuata una politica repressiva: vennero eliminate le pubblicità di sigarette e bevande alcoliche, ai minori fu vietato l’acquisto di tabacco e alcol e venne introdotto un coprifuoco serale per gli adolescenti tra i 13 e 16 anni, in vigore ancora oggi.

Dall’altro fu avviata un’intensa campagna di attività extrascolastiche, di ogni tipo, da quelle sportive a quelle artistiche, con aiuti alle famiglie meno abbienti per potervi partecipare, unito a un piano di educazione ai genitori, invitati a passare più tempo di qualità con i figli.

“Non abbiamo detto a questi ragazzi ‘Siete in terapia’. Abbiamo detto loro ‘Vi insegneremo quello che volete’: musica, danza, arti marziali, dipingere”, disse Milkman. E ha funzionato, ha funzionato alla grande a giudicare dai dati. Tanto che si pensò di allargare il piano al resto d’Europa, ma si è concretizzato solo in alcuni esperimenti sporadici.

Ritornando quindi alla domanda iniziale e al proposito di Meloni: lo sport è davvero la soluzione a tutte queste “devianze”?

Gli effetti benefici dell’attività sportiva su stress e depressione sono cosa nota, lo sport fa bene anche alla mente, ma è chiaro che limitarsi a questo o ergerlo a panacea di tutti i mali è esagerato e ricorda non troppo velatamente politiche simili attuate 100 anni fa.

La carta vincente islandese non fu far correre e sudare gli adolescenti, fu ricompensarli delle libertà negate con l’attenzione e la cura che ogni giovane meriterebbe, non fu imporre loro un rigido programma di allenamento, ma fu insegnare loro “quello che volevano” in base alle loro inclinazioni. Da qui anche le attività artistiche, su cui Meloni non dedica particolare enfasi.

Lo sport infatti da solo non basta e anzi, non è certo una novità determinati contesti sportivi siano legati a un’idea di mascolinità molto tossica dove il bullismo è un problema diffuso (basti pensare alle difficoltà per le persone Lgbtqia* in ambienti come quelli calcistici).

In Islanda lo sport fu usato come uno dei mezzi per fare terapia, ma fu quest’ultima a fare davvero la differenza, fu la sinergia Stato-adolescenti-genitori a fare la differenza.

Insomma, si è trattato di un percorso lunghissimo e difficile, che merita attenzione e magari anche emulazione, ma che merita soprattutto un approccio meno paternalistico e nostalgico.

Quando Meloni racchiude in un unico calderone i disturbi alimentari, la microcriminalità, le dipendenze e le malattie mentali, chiamandole “devianze”; quando si concentra solo sullo sport e poco sull’arte; quando misura il successo dell’Islanda in base alle sue performance sportive; quando parla in questo modo è abbastanza palese che veda nel “modello islandese” un modo nazionalista per “mettere i giovani in riga” con la “vecchia e sana attività fisica”.

Di accesso facilitato a cure per la sanità mentale, invece, non si parla.

Un’unica soluzione per problemi molto diversi tra loro, come se i problemi dei giovani fossero in fondo di poco conto, fragilità di tendenza, risolvibili occupando il loro tempo con qualcosa di concreto, senza perdere tempo a indagare le cause.

E dove potrebbero mai risiedere le cause dei problemi giovanili se non nella generazione che li precede? Nella società che tale generazione ha costruito?

Viviamo un’epoca in cui il futuro da promessa si è fatto minaccia, in cui il cambiamento climatico, i conflitti internazionali, le discriminazioni delle minoranze e un sistema economico insostenibile stoppano sul nascere ogni possibile sogno dei più giovani. E questo è un tema che dovrebbe interessare tutta la politica, senza aspettare che ne parli Meloni.

Se davvero li vogliamo chiamare “deviati”, c’è da chiedersi chi li ha ridotti così.

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