Pena di morte: i Paesi dove nemmeno la pandemia ha rallentato le esecuzioni

Nonostante la pandemia abbia portato a una diminuzione globale delle esecuzioni, molti Paesi hanno scelto di non fermarsi, ricorrendo a misure ancora più crudeli e disumane e violando accordi e principi di diritto internazionale.

Lo scoppio della pandemia da Covid-19 in questi lunghi mesi ha letteralmente immobilizzato il mondo intero, lo ha relegato, per diversi periodi e a più riprese, in condizioni di lockdown e isolamento e ha fermato moltissime attività quotidiane, purtroppo, però, questa situazione emergenziale dalla portata straordinaria non ha favorito uno stop delle condanne a morte, che sono state eseguite, spesso addirittura con modalità ancora più cruente e disumane, in 18 Stati.

Il 2020 ha registrato nel complesso una diminuzione dell’uso della pena di morte rispetto all’anno precedente, precisamente del 26%, un dato che risulta il più basso degli ultimi dieci anni e che conferma il trend di ininterrotta riduzione per il quinto anno consecutivo, ossia dal 2015. Questo fatto è dovuto in parte alle interruzioni forzate per via della situazione pandemica, tra cui ritardi e rinvii nei procedimenti giudiziari, ma anche per una riduzione consistente di condanne a morte in due dei Paesi che storicamente più la utilizzano, l’Iraq e l’Arabia Saudita.

Questo primo dato potrebbe sembrare confortante, ma nei fatti non lo è: il rapporto di Amnesty International relativo all’anno 2020 ci dice che se vi è stata da un lato una diminuzione globale nel numero delle esecuzioni capitali imposte ed eseguite, dall’altro, in molti Paesi si è assistito a un maggiore ricorso alla pena di morte che, spesso, ha portato a un inasprimento della crudeltà con cui è stata applicata.

Questo è quello che dichiara in merito Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International:

Mentre il mondo cercava il modo di proteggere le vite umane dalla pandemia, alcuni governi hanno mostrato una sconcertante ostinazione nel ricorrere alla pena capitale e ad eseguire condanne a morte.

I Paesi che più sono ricorsi alla pena di morte nel 2020

Come anticipato, in alcuni Paesi il numero delle condanne a morte ha eguagliato, se non addirittura aumentato, quello degli scorsi anni. Dal rapporto emerge che l’88% delle esecuzioni del 2020 sono state eseguite nei seguenti quattro Paesi: Iran, Egitto, dove le condanne sono state tre volte quelle del 2019, Iraq e Arabia Saudita.

A questo va aggiunto un aspetto tutt’altro che irrilevante ai fini del monitoraggio della situazione: la Cina considera i dati sulle condanne a morte e le esecuzioni come segreti di stato, pertanto non si hanno dati a riguardo, ma si ha ragione di pensare che il primo posto di questa triste classifica spetti proprio alla Cina, dove è purtroppo noto che la pena si morte venga destinata ogni anno a migliaia di prigionieri. Nel 2020, inoltre, in questo Stato la pena capitale è stata utilizzata per punire reati relativi alle misure di prevenzione della pandemia.

In Iran, ad esempio, che occupa il secondo posto della lista, con almeno 246 esecuzioni, sebbene il numero di esecuzioni sia inferiore rispetto agli anni precedenti, nel 2020 la pena di morte è stata usata più frequentemente come arma di repressione politica nei confronti di dissidenti e minoranze etniche, violando il diritto internazionale e le norme e gli standard internazionali a oggi vigenti che ne vietano l’uso per reati diversi dall’omicidio volontario.

Anche l’Egitto, che, come anticipato, ha triplicato il numero delle esecuzioni rispetto al 2019, è ricorso alla pena di morte per casi che normalmente il diritto internazionale non prevederebbe – tra cui i prigionieri politici, 57 in totale, di cui 53 uomini e 4 donne – oltre ad aver condotto processi irregolari basati su confessioni forzate e torture e provocato sparizioni forzate.

Si è ricorso alla pena capitale anche per reati di droga (in Cina, Indonesia, Singapore, Malesia, Laos, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam), per corruzione (in Cina e Vietnam) e per blasfemia, in Pakistan. Inoltre, sono ripresi gli “omicidi di stato” in India, Oman, Qatar e Taiwan.

Negli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Trump, dopo ben 17 anni, nel luglio 2020 sono state ripristinate le esecuzioni federali e sono state portate a termine 10 condanne a morte in meno di sei mesi. A inizio 2021, inoltre, sempre sotto Trump, è stata giustiziata Lisa Montgomery, la prima esecuzione federale di una donna in quasi 70 anni, mentre a maggio è stata la volta di Quintin Jones, giustiziato in Texas per l’omicidio di un anziano.

Non solo: a dispetto di quanto promesso in campagna elettorale, quando si è apertamente schierato nella corrente abolizionista, il neo presidente Biden non solo nei primi 100 giorni di governo non ha fatto alcun passo verso un’effettiva eliminazione della pena capitale, ma il 15 giugno ne ha persino chiesto il ripristino per Dzhokhar Tsarnaev, l’attentatore della maratona di Boston del 2013 condannato nel 2013 e la cui esecuzione è stata sospesa nel 2020.

Tra i Paesi che hanno aumentato il numero delle condanne, oltre all’Egitto, dobbiamo citare l’Indonesia, con 117 condanne contro le 80 del 2019, e lo Zambia, che, con 119 condanne contro 101 dello scorso anno, segna il record nell’Africa subsahariana.

Le brutalità e le conseguenze provocate della pandemia

La pandemia ha reso molto più complesso portare a termine e svolgere nel pieno della regolarità tutti i procedimenti legali normalmente previsti in un iter giudiziario che si possa definire rispettoso dei diritti dell’assistito e che possa portare a un regolare processo equo e valido sotto tutti i punti di vista. Le limitazioni introdotte per via dell’emergenza sanitaria hanno in molti casi reso impossibile fornire un’accurata assistenza legale ai detenuti, li hanno privati di colloqui con i loro avvocati e costretto questi ultimi a non poter approfondire indagini cruciali ai fini del processo o a condurle in condizioni non ottimali. Inoltre, la situazione ha esposto maggiormente i detenuti e i loro assistiti a rischi gravi per la loro salute.

Callamard sottolinea in una nota esaustiva la mancanza di umanità registrata in questo periodo storico da molti Paesi che si sono resi complici di una grave e inaccettabile violazione dei diritti umani:

La pena di morte è una punizione abominevole e portare a termine esecuzioni nel mezzo di una pandemia ne ha ulteriormente evidenziato la crudeltà. Contrastare la pena di morte è già difficile quando le cose vanno bene, ma la pandemia ha fatto sì che molti prigionieri nei bracci della morte non abbiano potuto incontrare di persona i loro legali e che molti che hanno cercato di fornire aiuto si sono dovuti esporre a gravi, e del tutto evitabili, rischi per la loro salute. L’uso della pena di morte in circostanze del genere è un attacco particolarmente grave ai diritti umani.

La segretaria generale di Amnesty International ha poi ribadito come il lavoro dell’associazione sia sempre più concentrato a portare a una totale abolizione della pena di morte, attraverso campagne che inducano i leader di tutti i Paesi a eliminare finalmente questa “punizione crudele, inumana e degradante”. 

Attualmente, stando ai dati riportati da Amnesty International e aggiornati ad aprile 2021, sono 144 gli Stati che hanno abolito la pena di morte nelle leggi o nella prassi, dei quali 108 per tutti i tipi di reati.

Nel 2020, ad esempio, il Ciad, e il Colorado, negli Stati Uniti, hanno abolito la pena di morte. Nel 2021 si è unita anche la Virginia, diventata il primo stato del sud degli Usa ad averla ufficialmente cancellata. Anche il Kazakhistan l’ha abolita ai sensi del diritto internazionale e nelle Barbados è stata cancellata l’obbligatorietà della condanna alla pena capitale.

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