Salomé è morta. Se n’è andata, un po’ nell’indifferenza generale, senza fare troppo rumore, vittima di un’ignoranza ancora largamente diffusa, di convinzioni sbagliate, della paura. Elementi che, sommati fra loro, sono il pericolo maggiore in cui una persona può imbattersi perché, inevitabilmente, la lasciano impotente andare incontro al proprio destino senza trovare l’aiuto di nessuno. Così è successo a Salomé Karwah, la ragazza liberiana che allo scoppio del virus Ebola nell’Africa Occidentale, dopo aver subito e sconfitto a sua volta la malattia, ha speso la sua vita per aiutare i malati, nella convinzione che quella era la sua missione e il motivo per cui era stata risparmiata.
Eppure proprio questo suo impegno a servizio degli altri, per combattere contro l’epidemia capace di decimare la popolazione nel giro di un solo anno, le è costato la vita quando è stata lasciata morire dopo il parto, vittima delle errate credenze di chi l’ha riconosciuta e, ritenendola contagiosa, non l’ha soccorsa.

La storia di Salomé è stata denunciata anche dal giornalista Massimo Gramellini, indignato da quella falsa informazione che la voleva “morta per parto”.

1. La lotta contro l’ebola

Eletta da Time persona dell’anno 2014, Salomé è diventata il simbolo degli Ebola fighters, quell’esercito di persone semplici, come lei, che nei rifugi attrezzati ad ambulatori di emergenza, nei centri di Medici Senza Frontiere, hanno curato, dato assistenza ai malati di ebola, coccolato i bambini infettati, accompagnato i moribondi verso una fine serena. Lei, 28 anni, in copertina con il suo camice da infermiera, ha rappresentato quella schiera di medici, barellieri, tutti impegnati nell’obiettivo comune, dare il proprio apporto contro quel male terribile capace di portarsi via, tra il 2014 e il 2015, ben 11 mila persone nell’Ovest del continente africano. Salomé stessa aveva visto la propria famiglia decimata a causa del virus, compresi i suoi genitori, compresa se stessa, che lo aveva contratto. Eppure, appena guarita, aveva scelto di tornare alla periferia di Monrovia, capitale della sua Liberia, proprio al centro MSN, per dare il proprio contributo. Aveva riaperto, con la sorella e il marito, James Harris, l’ambulatorio che era stato del padre dottore.

Sono sopravvissuta per aiutare gli altri. I malati sono come figli.

Ma proprio “gli altri” a cui Salomé ha dedicato la vita sono gli stessi che non hanno voluto ricambiare la cortesia quando lei ne ha avuto bisogno; coloro che lei aveva aiutato non hanno aiutato lei quando, subito dopo il parto, si è sentita male.

Com’è morta Salomé? Lo ha raccontato il marito

2. Morire ingiustamente, dopo aver dato alla luce un figlio

Fonte: web

Il 17 febbraio scorso Salomé dà alla luce il suo quarto figlio, Solomon, nato con parto cesareo. I medici dimettono mamma e neonato dopo tre giorni, ma le cose non vanno bene: Salomé sta male, le vengono le convulsioni, così il marito, anche lui un sopravvissuto al virus Ebola, la riporta in ospedale per degli accertamenti, a Monrovia.

Abbiamo aspettato in auto tre ore- racconta- Salomé schiumava, ma le infermiere non volevano toccarla. Avevano paura che fosse ancora infetta, che potesse contagiarle. Ho preso io stesso una carrozzina e l’ho portata dentro, mentre loro guardavano Facebook.

Purtroppo l’intervento di James non è servito: Salomé se n’è andata il 21 febbraio, lasciando quattro figli, nessuno più grande di sei anni. Fatale, per lei, proprio l’essere una sopravvissuta al virus, una cosa che l’ha assurdamente marchiata come ancora potenzialmente contagiosa, nella mente corrosa dal terrore del personale sanitario dell’ospedale liberiano. Tutto questo nonostante, dopo la malattia, lei si fosse sottoposta a un regime di vaccino e nonostante i test effettuati di recente fossero risultati tutti negativi. La ragazza simbolo degli Ebola fighters è diventata anche il simbolo dell’ignoranza atroce, quella alimentata dalla paura.

Non l’hanno voluta nemmeno toccare- racconta proprio la sorella Josephine-Qualcosa nel parto non è andata bene. Ma se fossero intervenuti, poteva salvarsi. Invece, nemmeno un’iniezione.

Il marito ha naturalmente accusato l’ospedale di negligenza, raccontando l’accaduto alla BBC e lo stesso Responsabile Sanitario della Liberia, Frances Kateh, ha assicurato al canale televisivo inglese che è stata aperta un’inchiesta per indagare sulla morte di Salomé. La sua morte, all’inizio, è stata archiviata come morte per parto.

3. La mortalità materna

Fonte: web

In Guinea, Sierra Leone e Liberia l’emergenza per l’epidemia Ebola sembra essere terminata, ma il virus ha lasciato dietro di sé, oltre che alle innumerevoli vittime, anche strascichi pesanti soprattutto sulla maternità: la mortalità materna è infatti tornata a salire vertiginosamente.

Colpa della mancanza di personale, decimato dall’ebola (nella sola Liberia gli operatori sanitari uccisi sono stati 184, in un sistema già ampiamente minato dalle guerre endemiche), ma anche della paura che le mamme sopravvissute, come Salomé, possano comunque essere ancora portatrici della malattia. Per 100 mila bambini che nascono, in Liberia sono 1072 le mamme che muoiono (una cifra colossale, se rapportata ad esempio a quella italiana, che è di 9), molte proprio a causa del feroce stigma che si portano dietro, quello di essere delle untrici, dei potenziali nidi di Ebola.

Salomé, che ha dedicato la vita all’aiuto degli altri, è stata uccisa proprio da questo. La sua sola “colpa”, l’essere stata più forte di un virus mortale. Ma purtroppo non dell’ignoranza.

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