Se anche i padri delle vittime difendono i presunti stupratori

Un padre che difende il branco accusato dalla figlia di stupro. Uomini che solidarizzano con Grillo "in quanto padri". La cultura dello stupro è tanto radicata in noi da non farci capire neanche quanto isolamento vivono le donne che dicono di aver subito una violenza sessuale.

Quasi ogni giorno riceviamo segnali che ci indicano come la cultura dello stupro sia profondamente radicata nella nostra società, ma cosa succede se persino i padri delle vittime di uno stupro difendono i violentatori?

Lo spunto da cui prendiamo le mosse per questo articolo è la vicenda che sarebbe accaduta a Campobello di Mazara, in Sicilia: una ragazza vittima di uno stupro di gruppo che trova il coraggio per denunciare, il giorno dopo, e che viene letteralmente sconfessata dal padre, che si mette dalla parte di quelli che sarebbero i suoi aguzzini.

Al di là del mero giudizio sull’atteggiamento di questo genitore, è importante provare a capire come sia possibile che persino un padre sia così tanto immerso nella rape culture da trovare normale porre la propria stessa figlia sul banco degli imputati, delegittimandone il dolore e il trauma e facendone una corresponsabile per giustificare, in qualche modo, la violenza del branco.

Prima di tutto è quindi fondamentale ribadire che la cultura dello stupro non è solamente riferibile agli atti violenti in senso proprio compiuti nei confronti delle donne, ma è un concetto decisamente più esteso e che coinvolge numerosi aspetti della vita di tutti e tutte noi; leggiamo dall’articolo in cui abbiamo trattato nel dettaglio il tema che

Concretamente, allude a un sistema socioculturale, ben radicato nella realtà odierna, che avalla, giustifica, fino quasi ad alimentare, la violenza ai danni delle donne per mano di uomini. Questo tipo di cultura non si esprime solo con l’atto estremo dello stupro, ma si perpetua a più livelli e in differenti modi, attraverso l’uso di un linguaggio misogino e offensivo ai danni delle donne, l’oggettivazione del corpo femminile e la legittimazione della violenza sessuale, spesso relegata a semplice espressione del desiderio maschile.

Dunque alla cultura dello stupro appartengono atteggiamenti che sono del tutto normalizzati, persino accettati (da ambo i generi) a livello sociale, come il catcalling, ad esempio, che anzi storicamente è interpretato come un segno di apprezzamento verso la donna, che in quanto attraente “merita” i fischi e le battute inopportune degli sconosciuti per strada; ma anche le infinite discussioni sul corpo delle donne, sul loro aspetto, sul loro modo di vestirsi e comportarsi, che sono considerate normali solo perché provengono da un tipo di cultura, quella maschilista e patriarcale, in cui tutt* siamo cresciut* , che le ha rese tali, ma che in realtà sono classificabili secondo un’altra definizione: victim blaming, o vittimizzazione secondaria.

È questo genere di clima a far sì, ad esempio, che in un caso come quello di Beppe Grillo sceso in difesa del figlio, accusato di stupro, molti uomini fraternizzino con quest’ultimo “in quanto padri” a loro volta, e persino che il padre di una vittima trovi una colpa nella propria stessa figlia per quanto ha subito. Questione di mentalità, verrebbe banalmente da pensare, ma sarebbe riduttivo: parliamo di secoli di cultura profondamente radicata in ciascuno di noi, donne comprese.

“Da padre capisco Grillo” e la solidarietà che non è mai dalla parte delle vittime

Nel video diffuso da Beppe Grillo per difendere il figlio Ciro e i tre amici dall’accusa di stupro fatta da una ragazza che sarebbe stata ripetutamente violentata dal gruppo nel 2019, durante una serata nella villa dell’ex comico in Sardegna, sono due le cose che emergono, una volta di più:

  • che la vittima per essere tale debba seguire un “codice” di comportamento e dei tempi che altri stabiliscono (“una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf, e dopo otto giorni fa una denuncia, vi è sembrato strano“, una frase a cui sono seguite numerose polemiche e la creazione, sui social, dell’hashtag #ilgiornodopo).
  • che sembra essere decisamente più facile solidarizzare con un uomo che deve difendersi da un’accusa di violenza sessuale che non con la donna che ha lanciato quest’accusa, e che presumibilmente ne è quindi la vittima.

Un concetto che è stato espresso anche in questo post Facebook dalla scrittrice e attivista Djarah Kan

Enrico Mentana dice che da padre capisce la rabbia di Beppe Grillo – scrive – Vito Crimi dice che da padre capisce la rabbia di Beppe Grillo.
Alessandro Di Battista esprime la sua solidarietà di padre a Beppe Grillo. Anche lui capisce la rabbia di Beppe Grillo.
E insomma, che bella società di persone comprensive abbiamo? Vi aspettavate tanta sensibilità? Un simile tatto e cotanto cuore in quest’epoca di brutalità urlate a tutte le ore del giorno?

[…] È ovvio che qui stiamo assistendo a un caso piuttosto comune di ’empatia fatta male’. L’empatia fatta male è quella cosa che succede quando un uomo, per dissimulare la sua reale, intima e a volte addirittura inconscia strafottenza nei confronti della violenza contro le donne, tira fuori la carta del ‘padre’, questa straordinaria e mitica creatura leggendaria, capace di riuscire a prendere le distanze da qualsiasi tipo di ingiustizia e violazione della persona umana, perché se sei padre, mica ragioni come la gente normale. L’omicidio e lo stupro non sono percepiti in egual modo. Diventano un’eventualità che rovina la vita a te, e non a chi subisce la perdita o la violenza.

Ma addirittura il ‘padre’ quando intrinsecamente strafottente nei confronti degli altri esseri umani, può addirittura trovare altri padri, che si uniscano a lui in questo strano rituale collettivo, dove nessuno riesce a sentirsi umanamente vicino a una donna che denuncia uno stupro, ma tutti riescono incredibilmente a sentirsi vicini a un figlio che è chiamato a rispondere delle proprie azioni.

Non è questione di appartenenza di genere (le donne devono difendere le donne, gli uomini devono difendere gli uomini) ma, esattamente come sottolinea Djarah Kan, di un doppio standard anche nella misura della propria empatia: se si concede il beneficio del dubbio a un ragazzo accusato e in attesa di un processo per stupro, perché non si concede anche alla ragazza che di questa violenza sarebbe la vittima? Si fraternizza, “da padri” o no, con Grillo che difende il figlio, ma non si spende una parola di vicinanza, nemmeno una, sulla ragazza, di cui invece viene persino vagliato il comportamento post (presunto) stupro?

C’è poi un ulteriore aspetto, che è passato assolutamente in secondo piano, ed è quel video, di cui parla Grillo stesso, che “scagionerebbe” suo figlio dall’accusa; un video che, dicono i genitori della ragazza, sta girando come una sorta di trofeo fra le varie chat di amici degli amici.

Abbiamo appreso che frammenti di video intimi vengono condivisi tra amici, come se il corpo di nostra figlia fosse un trofeo: qualcosa che ci riporta a un passato barbaro che speravamo sepolto. Confidiamo nel fatto che tutto questo fango sarà spazzato via facendo emergere la verità. Abbiamo dato mandato al nostro legale di agire in sede giudiziaria contro tutti coloro che a qualsiasi titolo partecipano a questo deplorevole tiro al bersaglio.

Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che, stando così le cose, ci troveremmo di fronte a un caso di revenge porn, un reato punibile per legge.

Se i genitori sono i primi a portare avanti la cultura dello stupro

Veniamo ora al caso di Campobello di Mazara: lo scorso 6 febbraio una ragazza viene attirata con una scusa in una casa estiva di Tre Fontane da cinque coetanei; le dicono che c’è una festa, che arriveranno altre ragazze, ballano e bevono ma in quella casa non arriva più nessuno.

La ragazza si apparta con uno dei ragazzi, che lei frequenta, poi arrivano anche gli altri due, la violentano a turno, mentre lei cerca di divincolarsi e gli altri, sulla porta, scattano foto e ridono. Il giorno dopo racconta tutto alla mamma e al fratello, va in caserma dai Carabinieri per denunciare, ma poi arriva il padre di lei, che difende il gruppo:

Mia figlia vi ha raccontato dei fatti non veri, era sotto l’effetto di sostanza alcoliche e quindi non era in grado di capire quanto accaduto. Questi sono dei bravi ragazzi, le ferite che mia figlia ha alle braccia sono dovute al fatto che i suoi amici tentavano di riportarla a casa, ma lei era ubriaca e faceva resistenza.

I ragazzi, forti di questo appoggio, raccontano alle forze dell’ordine la loro versione, rilasciando dichiarazioni che non vengono ritenute valide dal Gip. Alcune di queste, riportate da un quotidiano locale:

La ragazza vomitava dappertutto.

La serata è stata tranquilla senza problemi di nessuna natura.

È stata lei a sferrare calci e pugni.

Il padre della ragazza continua a difenderli, racconta che la figlia è tornata a casa in evidente stato confusionale, ubriaca, che ha tentato di togliersi la vita con un coltello da cucina. La sua difesa, però, non è servita ai “bravi ragazzi”, che il 29 aprile sono stati arrestati: i cugini Eros e Francesco Biondo, 23 e 24 anni, sono ora in carcere, mentre Giuseppe Titone e Dario Caltagirone, 20 e 21 anni, sono ai domiciliari, tutti con l’accusa di violenza sessuale di gruppo aggravata, mentre un altro minorenne è indagato a piede libero. Le prove sarebbero schiaccianti.

I carabinieri parlano infatti di quadro indiziario chiaro: “Attendiamo ancora una relazione dettagliata su quanto abbiamo trovato nei cellulari – ha detto a TgCom 24 il comandante dei carabinieri della compagnia di Mazara del Vallo, Domenico Testa – In questi mesi le indagini non si sono mai fermate. Abbiamo sentito a sommarie informazioni tante persone che fanno parte della rete relazionale della ragazza, e anche gli indagati. Abbiamo utilizzato nelle indagini anche delle attività tecniche che ci hanno consentito di raccogliere un quadro indiziario chiaro che ha consentito al Gip di emettere i provvedimenti cautelari”.

Secondo La Stampa, gli inquirenti avrebbero trovato negli smartphone dei quattro ragazzi prove della loro condotta criminalee dentro pare abbiano trovato altre prove della loro criminale condotta, aggiungendo inoltre che “Le indagini sono state condotte con intercettazioni telefoniche e ambientali, ad essere sentiti alcuni dei partecipanti a quella festa. Il giudice ha firmato l’ordinanza per il pericolo di inquinamento probatorio ma anche perché il branco pare avesse intenzione di organizzare ancora un’altra festicciola per ripetere un’altra violenza sessuale. I giovani dal volto pulito sono stati indicati dal giudice capaci di una certa pericolosità, con personalità criminali che restavano nascoste nelle ore di lavoro”.

Tutt’altro, insomma, rispetto all’immagine dei “bravi ragazzi” dipinta dal padre della ragazza.

Viene quindi da domandarsi, cosa può portare un padre a schierarsi dalla parte degli aggressori? La paura di ritorsioni, forse, o del giudizio della gente di fronte a una figlia che sceglie di denunciare subito. Difficile dirlo; vero è, però, che come detto non è altrettanto difficile rintracciare rigurgiti, seppur involontari, di rape culture in molte delle frasi che i genitori stessi dicono alle figlie:

Non vestirti così per uscire.

Non bere.

Poi non lamentarti se ti succede qualcosa.

Quanto sarebbe importante, per una volta, avere invece la consapevolezza che i genitori di figli maschi, prima di lasciarli uscire, dicessero loro:

Ogni ragazza può vestirsi come le pare, niente di autorizza a toccarla.

Se una ragazza è troppo ubriaca per esprimere il consenso a un rapporto, riportala a casa.

 

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