Il privilegio di chi dice "fregatevene" ai ragazzi che si suicidano perché discriminati

Le intenzioni sono le migliori, e ben vengano, ma dire a chi viene discriminat* di ignorare le discriminazioni è un pensiero molto superficiale, da parte di chi ha il privilegio di non vivere quelle situazioni.

Tigran e Arsen erano due ragazze armeni, innamorati, che la sera del 20 ottobre si sono suicidati insieme dopo aver postato online la foto del loro ultimo bacio.

Ne abbiamo scritto qui:

Una tragedia che ha scosso l’animo di molte persone, incredule nel constatare che l’oppressione e la discriminazione a causa dell’orientamento sessuale possano portare due giovani a compiere un gesto così estremo.

In Armenia l’omosessualità non è più un reato solo da 19 anni, ma per quanto riguarda l’opinione pubblica l’omofobia regna ancora sovrana, tanto che a commentare la notizia c’è stato chi ha invitato altri ragazzi omosessuali a fare lo stesso.

Tra i tanti commenti emersi dalla nostra pagina, invece, ci si domanda come cose del genere possano accadere, facendo un contro-invito: fregarsene dei giudizi negativi. Si chiede alle persone della comunità Lgbtq+ di vivere la propria vita in serenità e libertà, ignorando gli omofobi.

È un pensiero che nasce dalle migliori intenzioni, ma che presenta diverse problematiche che credo sia opportuno affrontare, non per minare la bontà di tali convinzioni, ma per far sì che confluisca in pensieri più costruttivi, che possano fare davvero la differenza.

I “giudizi negativi” spesso sono condanne a morte

In diversi Paesi del mondo essere omosessuali comporta la pena di morte: Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi, Afghanistan, Somalia, Mauritania e Yemen. In molti altri è punita con il carcere, anche a vita: Algeria, Bangladesh, Barbados, Birmania, Brunei, Burundi, Camerun, Ciad, Comore, Dominica, Egitto, Eritrea, Etiopia, Gambia, Ghana, Giamaica, Grenada, Guinea, Guyana, Indonesia, Isole Cook, Isole Salomone, Kenya, Kiribati, Kuwait, Libano, Libia, Malawi, Maldive, Malesia, Marocco, Mauritius, Namibia, Nigeria, Oman, Pakistan, Palestina, Papua Nuova Guinea, Qatar, Repubblica Centrafricana, Saint Vincent e Grenadine, Samoa, Santa Lucia, Senegal, Sierra Leone, Singapore, Siria, Somalia, Sri Lanka, Sudan, Sudan del Sud, Swaziland, Tanzania, Togo, Tonga, Tunisia, Turkmenistan, Tuvalu, Uganda, Uzbekistan, Zambia e Zimbawe.

Scusate l’elenco lungo, ma è per far comprendere quanto sia superficiale ragionare solo in chiave occidentale. Non sono giudizi negativi, sono sentenze. Non le si può ignorare con un’alzata di spalle.

Inoltre, anche a guardare all’Occidente, ci sono situazioni in cui legalmente sta diventando sempre più difficile appartenere alla comunità Lgbtq+, basti pensare all’Ungheria o alla Russia.

Ricordo che in Italia non si è voluto approvare una legge contro l’omobitransfobia.

Ancora una volta è colpa della vittima

Rimarcare la fragilità di questi ragazzi, sottolineando quanto avrebbero invece dovuto superare i giudizi della gente è l’ennesimo esempio di victim blaming. La responsabilità del gesto estremo è fatta ricadere sulla poca forza di volontà dei giovani, anziché sul sistema marcio che li ha portati a suicidarsi.

È una tendenza che si riscontra spesso nei confronti dei disturbi mentali, per i quali sembra basti “impegnarsi un po’” per superarli, derubricandoli da vere malattie a fragilità.

C’è anche chi ha commentato quanto il loro gesto fosse un “pessimo esempio” da dare. Quindi non solo si fa ricadere sulle loro spalle le discriminazioni subite, ma a quanto pare anche da morti devono farsi portavoce di un messaggio più alto. Non si sarebbero dovuti uccidere, avrebbero dovuto resistere, come emblema di tutti i gay del mondo. Insomma, li si voleva martiri in vita. Fragili, ma con il peso del mondo sulle spalle.

Dire “fregatene” è da persone privilegiate

C’è dell’utilità pragmatica nella resistenza. Tutte le conquiste in fatto di diritti si sono fatte alzando la testa, opponendosi alle oppressioni. È vero.

Tuttavia, quante delle persone pronte a incitare il coraggio della comunità Lgbtq+ hanno mai provato sulla loro pelle la paura di stringere la mano a chi si ama? Quante sono abituate a controllare che non ci sia nessuno nei paraggi prima di scambiarsi un bacio? Quante hanno rischiato pestaggi per i vestiti che portavano? Quante persone etero hanno mai temuto di essere buttate fuori casa, di perdere il lavoro, di perdere amicizie, per il proprio orientamento?

È vero, bisogna resistere, ma la comunità lo sa già. Invece che ricordarlo, si dia una mano! Invece che addossare solo alle persone discriminate la responsabilità di far cessare le discriminazioni, bisogna iniziare a contribuire alla lotta.

Iniziare a zittire i giudizi negativi, piuttosto che consigliare ai diretti interessati di tapparsi le orecchie.

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