Ieri, 15 novembre, Vanity Fair ha pubblicato un articolo a firma di Valeria Fonte, divulgatrice e attivista contro le narrazioni misogine, dal titolo: Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida.

Nel testo, Fonte riporta alcune riflessioni scaturite da un colloquio che ha avuto con un femminicida che ha ucciso la compagna e ha scontato 12 anni di carcere, senza mezzi termini, com’è il suo stile, affermando che “Non conta solo l’azione. Conta la potenzialità dell’azione e la reazione sociale a quelle azioni. Gli uomini possono scegliere o non scegliere di compiere degli abusi, ma questo è paradossalmente irrilevante se nessuno educherà e rieducherà i maschi in ottica femminista. Lì si capisce che nessuno è assolto e che sì, tutti pensano come pensa un femminicida.”

Come si può immaginare, l’articolo è stato accolto con entusiasmo da un lato e con un rifiuto netto dall’altro, in particolare dai lettori maschili che si sono esibiti in esempi di “not all men” da manuale.

È una reazione istintiva e parlando da uomo ne comprendo bene anche le origini. A nessuno piace essere accusato di qualcosa sui cui si pensa non avere alcuna responsabilità, men che meno se si tratta di cose gravissime come violenze e femminicidi.

Mettersi sulla difensiva è quindi comprensibile, ma più ci si barrica dietro la propria presunta innocenza, più sale il dubbio che sia in difesa di un’enorme coda di paglia.

C’è chi punta tutto sulla logica, pretendendo dall’autrice di turno un trattato dettagliato sul perché mai “io che non ho mai fatto male a una mosca” dovrei ritenermi responsabile di tali violenze; e poi c’è chi invece la rigira sottomettendosi alla “palese superiorità” della donna, verso la quale mai potrebbe nutrire pensieri “da femminicida”.
I più, però, reagiscono con la cara e vecchia cattiveria da social, insultando, aggredendo e contraddicendo in poche parole la loro stessa tesi di non essere dei violenti.

Il punto è che ci possiamo arrabbiare quanto vogliamo, possiamo protestare fino a far cambiare i titoli, possiamo insultare e sbavare sulle tastiere, ma la verità non cambia: ha ragione Fonte, tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida. Tutti, fidanzati, ex, padri, mariti, figli, potenzialmente, potremmo diventarlo. Anche il sottoscritto che scrive, nessuno è escluso, ed è un’affermazione forte da pronunciare, lo so, e lo è ancora di più se per professione ci si occupa di femminismo tutti i giorni, ma forte è anche la consapevolezza di cui dovremmo finalmente farci carico.

Perché, parafrasando Faber, potremo dichiararci assolti quanto vogliamo, ma saremo sempre coinvolti. E c’è un motivo.

Fonte nel suo articolo lo spiega meglio di quanto potrei fare io, ma dopotutto in una società patriarcale come la nostra, dove moltissimi degli “step maschilisti” che precedono l’eventuale epilogo femminicida vengono non solo tollerati, ma a volte persino esaltati, l’eccezione sarebbe un uomo che pensa femminista ( sì uso il termine come contrario del “pensare da femminicida”, se la cosa vi turba chiedetevi il perché).

“Nessuno nasce cattivo, nemmeno un femminicida. Nessuno nasce maschilista, nemmeno un femminicida. Nessuno nasce con l’intenzione di ucciderci, nemmeno un femminicida. Non è genetica. È cultura.”

Scrive Fonte, e ha ragione, purtroppo però sganciarsi da una cultura è un’operazione difficoltosa, ancor di più se si tratta di una cultura che (apparentemente) ci avvantaggia. La cultura dello stupro pone infatti noi uomini in una posizione di potere, al quale, senza scomodare Orwell, si capisce bene facciamo fatica a rinunciare.

Che poi tale potere sia mantenuto al costo di un’instabilità perenne, dove viviamo in costante competizione, dove non possiamo mai mostrarci fragili, esprimere emozioni e dove abbiamo sempre paura di perdere quello “status di maschio”, così difficile da guadagnare e facile da perdere, poco ci importa. Anche se dovrebbe importarci tantissimo, ma aver costruito una cultura che ci rende paurosi della paura stessa, mal si concilia con l’abbracciare sane preoccupazioni.

Un mezzo che abbiamo trovato per gestire questa fragilità sotterranea è mantenere il controllo su coloro che sono mediamente più soggette alla nostra forza fisica, che nei secoli si è poi diramata in altre forme di padronanza, da quella psicologica a quella economica, ma anche a forme ancora più subdole nella loro apparente natura innocua, come il corteggiamento cavalleresco che “tratta le donne come regine”, ma al contempo le conquista come terre da depredare; come la gelosia esaltata a prova d’amore; come romanticizzare il “tu sei mia” sussurrato nell’intimità, e molte altre piccole applicazioni di quello che altro non è che il patriarcato, il “pensare da femminicida”.

E quando le situazioni sfuggono al nostro controllo, quanto ci rendiamo conto di essere superflui, come scrive Fonte, di fronte a chi credevamo essere “nostro”, ecco che allora torniamo alle origini, a quella forma di controllo primordiale che si esercita attraverso la forza bruta, la violenza.

È vero, non tutti retrocederemo fino a tal punto, c’è chi si “fermerà” a uno schiaffone, chi urlerà e basta, chi seguirà e spierà l’ex, chi per vendicarsi la chiamerà “tr*ia” con gli amici, chi si limiterà solo a pensarle queste cose… Non tutti diventeremo femminicidi, ma le basi per diventarlo sono già tutte lì.

E quanti, a fronte di questi pensieri e comportamenti, sarebbero ancora, con onestà, pronti a urlare “not all men”?

Fonte si rivolge poi alle donne, consigliando loro modi per “cambiare la narrazione”, ma cosa possiamo fare invece noi uomini? Perché se è vero che la cultura in cui siamo immersi non ci aiuta ad affrancarci da questa forma mentis, è vero che la stragrande maggioranza di noi non vuole essere femminicida.
È un’ovvietà, ma se non facciamo nulla, limitandoci al silenzio (o a recriminare le donne che “osano accusarci”) il nostro desiderio pacifista rimarrà sempre vano.

Dobbiamo impegnarci, metterci in discussione, ascoltare le donne e ascoltarle davvero, sempre, senza pensare di non avere più nulla di tossico da decostruire. Imparare a non avere paura di perdere la nostra mascolinità e iniziare a fregarcene del giudizio degli altri uomini. Dobbiamo mollare la mania di controllo che ci assale, dobbiamo sperimentare la libertà fuori dagli stereotipi di genere ed evitare le persone che ci impongono di rispettarli, fossero anche donne. Dobbiamo trovare un modo di “essere uomini” che non sia ciò che ci è stato insegnato fino a ora.

Comprendo che siano suggerimenti che richiedono tempo e forza di volontà per essere messi in pratica, anche perché siamo soli in questo percorso, senza Istituzioni che facciano davvero qualcosa, ma il primo passo per affrancarci da questi “pensieri da femminicida” è ammettere che li abbiamo. Sapere che potrei essere un femminicida, che la cultura mi ha fornito tutti gli strumenti in tal senso, non mi renderà tale, anzi: è l’unico modo per iniziare a essere davvero sicuro di non diventarlo mai.

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