C’è qualcosa che sta accadendo fra i membri più giovani della comunità afroamericana negli Stati Uniti: le statistiche e gli studi hanno dimostrato che in particolar modo nell’ultima generazione si è verificata una crisi riguardo la salute mentale dei ragazzi neri, spesso ignorata anche dalle stesse famiglie. Eppure la frattura è talmente grave che i tentativi di suicidio sono aumentati di quasi l’80% tra gli adolescenti neri dal 1991 al 2019, mentre le percentuali non sono cambiate fra le persone appartenenti ad altre etnie.

Uno studio condotto lo scorso settembre su alcuni studenti delle scuole superiori ha rilevato che gli adolescenti neri intervistati avevano più probabilità degli adolescenti bianchi di tentare il suicidio senza avere mai avuto pensieri o piani in questo senso. A questo si aggiunge un altro studio dello scorso anno, che ha indicato come i bambini e gli adolescenti neri morti suicidi avessero vissuto una crisi nelle due settimane precedenti il gesto, in misura maggiore rispetto ai coetanei bianchi: un problema di relazioni familiari, una discussione o un conflitto, ma non da ultimo anche una storia di precedenti tentativi di suicidio.

“Non volevo necessariamente morire – ha raccontato al New York Times Jordan Burnham, sopravvissuto a un salto da una finestra del nono piano quando aveva 18 anni che gli è costata la frattura di bacino, gamba sinistra, polso, cranio e mascella – Ma la parte di me che soffriva di depressione, vergogna e tristezza ogni giorno, voleva che quel dolore morisse. Voleva che quella parte andasse via”.

Oggi Burnham ha 32 anni e gira gli USA per parlare di prevenzione al suicidio nelle scuole; nel suo caso, benché gli fosse stata diagnosticata la depressione fin da adolescente, a far scaturire la molla è stato il percepirsi come una sorta di outsider, essendo uno dei pochi studenti neri in una scuola prevalentemente bianca di Filadelfia, ma anche una lite avuta con i genitori il giorno prima del suo tentativo di suicidio, a causa di una scorta di alcool trovata nella sua auto.

Joe, invece (viene usato il suo secondo nome e non viene menzionato il cognome per proteggere la privacy) aveva appena 17 anni quando ha deciso di farla finita: suo fratello si stava appena riprendendo da una ferita da arma da fuoco alla gamba, e lui era stanco dei commenti sul suo peso. Ha tentato di uccidersi prendendo delle pillole che gli sono costate un mal di pancia, e subito dopo ha chiesto ai genitori di poter essere portato in terapia.

Il suicidio e la malattia mentale sono spesso considerati un “fenomeno bianco”, ha affermato Michael A. Lindsey, direttore esecutivo del McSilver Institute for Poverty Policy and Research presso la New York University, che studia la salute mentale degli adolescenti neri. Non è difficile capire perché: in linea generale, i suicidi di persone bianche superano quelli delle persone nere, ma le cose cambiano se si parla di adolescenza e di persone sotto i 25 anni.

Una ricerca del 2018 ha rilevato che, per quanto fosse basso il tasso di suicidi di bambini neri nell’età compresa tra 5 e 12 anni, era comunque il doppio rispetto ai numeri riguardanti i bambini bianchi della stessa età. Tra adolescenti e giovani adulti, i tassi di suicidio rimangono più alti tra bianchi, nativi americani e nativi dell’Alaska; ma mentre il tasso di suicidi è recentemente diminuito tra quei gruppi, ha continuato a crescere tra i giovani neri. Dal 2013 al 2019 il tasso di suicidi di ragazzi e uomini neri di età compresa tra 15 e 24 anni è aumentato del 47% e del 59% per ragazze e donne nere della stessa età.

Le cose peggiorano per gli adolescenti neri che si identificano come LGBTQIA+: a una discriminazione di tipo razziale, infatti, se ne aggiunge una di tipo sessuale. Eppure, nonostante appaia piuttosto chiaro come il pregiudizio giochi un ruolo fondamentale nei piani di suicidio dei giovanissimi, negli Stati Uniti sorprendentemente c’è una carenza preoccupante di ricerche che esaminano proprio le differenze etniche riguardanti le idee, i piani o i tentativi di suicidio.

La lacuna è stata sottolineata anche in un rapporto presentato al Congresso nel 2019, che ha dato vita a un programma di prevenzione al suicidio chiamato Success Over Stress dedicato alle scuole medie e che tocca temi come il razzismo sistemico e la brutalità della polizia. Inutile evidenziare come i casi di George Floyd e degli altri afroamericani ammazzati nel corso degli anni abbiano giocato un ruolo enorme nella percezione della sicurezza in quanto membri della comunità black.

Nel 2019 i dati raccolti dai Centers for Disease Control and Prevention hanno mostrato che il 18% degli studenti delle sole scuole superiori di Cleveland aveva tentato il suicidio nei 12 mesi precedenti, rispetto a circa il 9% a livello nazionale. Il perché è da ricercarsi in quei cosiddetti fattori di stress cronici, tra cui la violenza di quartiere e l’insicurezza alimentare. A rischiare di più di togliersi la vita, infatti, sono i ragazzi dei quartieri dove c’è un alto tasso di povertà.

Discriminazione, paura di non riuscire a costruirsi un futuro, violenza: sembrano dunque essere queste le cause dell’alto tasso di suicidi fra ragazzi neri. Eppure, come spesso capita, c’è una sorta di whitesplaining anche nel mondo della psicologia e della prevenzione al suicidio. Secondo un rapporto dell’American Psychological Association, infatti, solo il 4% degli psicologi negli Stati Uniti nel 2015 era nero, anche se i neri rappresentano il 13% della popolazione, e questa disparità si riscontra, ad esempio, anche nel campo dell’assistenza sociale.

Questo implica una sorta di scoramento, talvolta, da parte dei giovanissimi neri, che non si rivolgono a uno psicologo bianco ritenendo – non a torto – che non possa comprendere appieno le sue problematiche. A tutto ciò si aggiunge però anche lo stigma sociale riguardante la salute mentale che è ancora molto forte presso buona parte della comunità afroamericana, ragion per cui spesso sono in primis gli stessi genitori a invitare i figli a non rivolgersi a uno specialista per discutere di ansia o depressione.

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