"Vi racconto il nostro nudo politico e le molestie di strada subite"
"La continuità tra sessismo e specismo è così forte che vestita da vacca vengo fatta a pezzi nell’arco di pochi istanti. Sono meno che umana, meno che viva, ai loro occhi."
"La continuità tra sessismo e specismo è così forte che vestita da vacca vengo fatta a pezzi nell’arco di pochi istanti. Sono meno che umana, meno che viva, ai loro occhi."
Napoli, 21 aprile 2023.
Siamo in Piazza Dante, ed è quasi il mio turno per essere truccata. Mentre aspetto, ritaglio delle strisce di dieci centimetri e le unisco a formare una piccola x. Al centro, su consiglio di L., posiziono un frammento di fazzoletto. Mentre l’attivista che mi precede aspetta con pazienza che il trucco sia steso, incollo le X sul seno. Ne ricavo altre due per l’addome.
M. ci pennella addosso il colore con delicatezza, quasi avesse la preoccupazione che le setole possano farci male. È veloce, precisa. In poco meno di in un’ora siamo quasi tutte pronte. Ci togliamo i vestiti e rimaniamo con una culotte color carne che riempiamo di tempera acrilica.
Il colore è freddo, cola sulle gambe raggrumato in pesanti gocce, come fosse sangue.
Ci mettiamo la crema solare a vicenda, miglioriamo la traiettoria del sangue finto, ci scambiamo battute di attesa e tensione. Soprattutto, ci facciamo scudo. I compagni e le compagne della marcia sono consci delle persone attorno a noi. Ci schermano, dicono alle persone di non avvicinarsi a fare foto inopportune, si frappongono fra noi e quelli più insistenti.
Fanno domande, interpongono il tema della piazza tra l* attivist* truccat* e le persone più moleste, creandoci un cuscinetto tutto intorno.
Perché il nudo politico è tanto forte quanto aggredito dall’esterno.
Ed è quasi ridondante dirlo. La linea che divide la curiosità dalla molestia è spessa, ma per molti uomini scivolare dall’una all’altra è ordinaria amministrazione. Scorgo un signore anziano che fissa una di noi, le pianta gli occhi sul corpo, indugia, scopre i denti sorridendo, piccoli e storti. Prende il cellulare e scatta foto. Più vicino. Zoomma con le dita sullo schermo e fa un passo. Poi un altro.
Dietro di lui, tra noi e la digos che ci filma, due uomini camminano commentandoci con smorfie di approvazione. Tirano gli angoli della bocca verso il basso, facendo su e giù con la testa e poi scoppiano a ridere.
Passano delle ragazzine, adolescenti, che ci dicono di coprirci.
Segue un signore, canuto, che strabuzza gli occhi e si avvicina con gli occhi chiaramente puntati su una di noi.
La marcia non è ancora partita.
Ci disponiamo in linea e qualcuno fischia.
Queste sono molestie di strada, molestie compiute da chi non appena vede una ragazza camminare sola si sente in diritto di fruire della sua immagine, del suo corpo e della sua sicurezza. E oggi siamo in piazza, con 6 persone seminude attive in una performance per denunciare l’abuso dell’industria del latte.
Perciò, apriti cielo.
La maggior parte dei cittadini, osserva la marcia con curiosità. Qualche fenomeno espressivo del maschile egemone getta battute carniste (che difendono il consumo degli animali) nell’aria, come a mettere una distanza tra quello che i cartelli fotografici denunciano e sé stesso. Delle signore ci chiedono per chi protestiamo, cosa vogliamo, come lo facciamo. Facciamo rumore, nel centro di Napoli. Un rumore che ci rende pieni di convinzione. Siamo scoperte per mostrare la violenza di un fatto ordinario.
Ma nel sottofondo dell’impegno politico dobbiamo anche occhieggiarci a vicenda, indicarci i cellulari puntati su di noi con insistenza, scacciare chi con la pretesa di fare una foto si avvicina troppo ad alcune di noi al solo scopo di portarsi a casa una ripresa stretta del seno di una compagna.
Quando si parla di violenza di genere, comunemente, si fa riferimento agli atti più brutali. Se non ci sono sangue e lividi, per molte persone la violenza non esiste. Per questo motivo, c’è ancora chi non collega le molestie di strada nel quadro interpretativo della violenza di genere. La violenza, però, può essere verbale o non verbale, passivo aggressiva e mascherata da una risata.
Nell’arco di una manifestazione che prevede la presenza di persone senza vestiti, capita di assistere a molestie largamente tollerate. E che perciò, quando lamentate o denunciate, non vengono nemmeno riconosciute dall’orecchio che ascolta. Anzi, c’è addirittura chi potrebbe avere il coraggio di dire che l’attenzione era voluta. Ma c’è una differenza abissale tra l’attenzione alla performance e l’indugio sul corpo delle persone. Nel primo caso, c’è il rispetto della persona, c’è l’accortezza di guardare e cercare di capire senza sessualizzarne il corpo. Nel secondo, invece, c’è una frammentazione quasi istantanea dell’individuo che viene separato dal possesso di sé. Il corpo diventa proprietà pubblica e viene fruito – consumato – di conseguenza. Occhi sul seno, sulle natiche, ghigni, foto, video, mani che indicano, gesti e invii velocissimi su whatsapp prendono pezzi e li osservano come oggetti sessuali. Ne fruiscono così, immediatamente. Senza nemmeno rendersi conto dello sguardo ostile che sta facendo gesto di smettere di filmare.
Addirittura, ad un certo punto, sono io a non rendermi più conto della quantità di telefoni che ci circonda. S. si frappone fra me e un signore intento a fotografarmi a meno di venti centimetri di distanza. Blocca la visuale e l’uomo si arrabbia perfino. Gli dice di togliersi.
Perché voleva prendere una porzione. Mettersela nella tasca virtuale e portarsela via. Peccato che quel frammento, fosse parte integrante di un individuo, di una persona. Mi viene quasi da ridere, con amarezza, pensando che siamo qui a denunciare l’abuso di sorelle non umane, fatte a pezzi per produrre. La continuità tra sessismo e specismo è così forte che vestita da vacca vengo fatta a pezzi nell’arco di pochi istanti. Sono meno che umana, meno che viva, ai loro occhi.
Lavorando come fotoreporter il mio compagno ed io cerchiamo di integrare il consenso in ogni scatto. Chiediamo, proviamo, cancelliamo. Creiamo lo spazio per la persona fotografata di cambiare idea, dirci di no, o sentirsi a suo agio. Il che vuol dire, molte volte, non fare una foto.
Per molti colleghi, invece, la foto è immediata, agita sull’altro senza troppe domande. Al massimo sbuca un “sei maggiorenne?”, ma più per evitare di mettere sul sito di un giornale la foto di una minore nuda che per rispetto dell’individuo.
Tutti oggi, fanno foto. Dietro lo schermo di uno smartphone, con un piccolo colpo di dita acchiappano momenti e sensazioni. Ma anche persone e situazioni personali, bambini e individualità marginalizzate.
La foto come presa dell’altra dovrebbe essere obsoleta, ma è una pratica costante. Lo vedo nel libro edito da Mondadori di due travel blogger, nelle prime pagine in cui spiaccicano foto di bambini, bambini indonesiani messi lì solo perché, e questo ogni persona che ha mai venduto una foto lo sa, sono il soggetto a cui il pubblico è più sensibile. Quello che i giornali vogliono in copertina in caso di crisi umanitaria, quello che chi vende qualcosa sui social usa per aumentare l’engagement. Ma non sono i soli ad essere presi. I corpi delle donne sono abusati, in fotografia. Che siano fasciati in abiti tradizionali, scoperti per il caldo, ignari e leggeri in strada, vengono continuamente presi e inquadrati, portati via. Senza che nessuno chieda alla ragazza che stava mangiando un gelato sulle strisce pedonali se le andava bene essere fotografata. Perciò, ecco, quando in manifestazione vedo l’insistenza dello scatto, il taglio stretto sul corpo di una compagna, lo sguardo che sta dietro allo schermo, compiaciuto e pasciuto di attenzione sessuale, leggo solo l’acquisizione, la molestia compiuta nel silenzio d’intorno.
Il nudo politico non è facile. O meglio, è diverso per tutti. C’è chi lo indossa con semplicità, chi lo vive con fatica, chi ride e balla, chi smette di cantare appena nota uno sguardo molesto, chi si accende come un fumogeno, chi fissa la folla con durezza. È molto più che una performance, non è un’esibizione. È un mettersi a disposizione di un messaggio, sapendo quanto il corpo abitato subisce in un sistema sessista ipersessualizzante. Una scelta attiva e molto spesso necessaria, che accende attenzione e genera dialogo. È una perturbazione in pieno centro storico. È forte.
E nel giusto gruppo è un atto difficile, ma protetto.
Chi ha preso parte alla marcia del 21 aprile ha colto la forza e la vulnerabilità della situazione, creando un vero e proprio scudo che ha filtrato e respinto la violenza esterna. Ho osservato lu compagnu in azione e ho visto la potenza dell’avere qualcuno alle spalle, la fierezza di esporsi e la gioia di poter contare su qualcuno che anche senza essere visto ha impedito un avvicinamento. Solidità e presenza, unione.
Nella piazza c’era tutto questo. Ed è probabilmente per questo che nemmeno io, con tutta la mia vita di donna in un mondo sessista a piegarmi le scapole, non mi sono mai sentita in pericolo. Ed ho potuto persino percepire la forza di quello che stava succedendo. Nonostante i molestatori e le molestie.
Perché la manifestazione era più forte, più incisiva e più attenta di tutto il resto.
Sono le persone che agiscono per gli altri a cambiare il mondo. E molto spesso nemmeno lo sanno.
La marcia è stata organizzata dal gruppo Animal Save, allo scopo di portare in piazza una prospettiva antispecista intersezionale.
Nata e cresciuta in Comasina, è una fotografa e una scienziata politica specializzata in relazioni internazionali e politiche globali, si occupa di disuguaglianze, espulsione sociale con un’ottica intersezionale e antispecista.
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