Perché l'America antiabortista è figlia di quella schiavista

Il ribaltamento di Roe. v. Wade non rappresenta una rottura, ma una continuità rispetto alla cultura sessista e patriarcale degli USA. La questione, però, si riallaccia anche al retaggio schiavista in un panorama ancora fortemente razzista che nega i diritti delle donne, soprattutto quando povere e razzializzate. Se prima la pratica abortiva era difficilmente accessibile, oggi la minaccia di subire una gestazione forzata è ancora più reale.

Non è un caso che, statisticamente, le persone che pubblicamente promuovono una posizione anti abortista negli Stati Uniti siano uomini bianchi, proprietari e oltre i 30 anni di età.

La tradizione storica riaffiora in queste figure a cui viene così facile accedere al potere di poter determinare gli istituti giuridici, con influenza o azioni dirette, passibili di creare o negare un diritto come quello dell’aborto. Si tratta di una storia poco raccontata, negata in modo da garantire una continuità e una cancellazione di fatto delle responsabilità in merito. Si tratta proprio della storia che una volta all’anno negli USA, e non solo, viene raccontata durante il Black History Month, una storia sempre stranamente assente al di fuori di quel mese specifico e fondamentale che permette di osservare il reale dipanarsi degli eventi così come è avvenuto. 

Roe v. Wade, una lettura

L’attuale decisione della Corte Suprema americana di sovvertire la sentenza Roe v Wade che, grazie ad un’interpretazione specifica del diritto alla privacy, garantiva l’esistenza della pratica abortiva a livello federale, si innesta con un filo di continuità rispetto alla condizione di subordinazione delle persone nere, donne, tenute in regime di schiavitù nel periodo compreso tra il XVI e il XIX secolo. 

Resistenza nera

Le comunità di schiavi, infatti, erano sottoposte ad uno specifico regime giuridico che determinava la possibilità per le figure padrone di disporne come fossero beni materiali. Il processo di deumanizzazione permise infatti di privare le persone nere rapite di qualsiasi potere autoderminativo. La resistenza nera, però, contrastava fortemente e su base quotidiana questa condizione, a partire proprio dalla strutturazione di legami familiari e collettivi capaci di essere una testimonianza concreta di tutto ciò che lo schiavismo voleva negare per garantirsi una parvenza di legittimità. 

Nelle piantagioni, come pure nelle case dei proprietari, le donne nere ricoprivano un ruolo specifico. Oltre a lavorare nei campi, dovevano infatti compiere lavori domestici di cura della casa e delle persone che la abitavano. Nel mentre, la gestione della propria vita familiare richiedeva tempo, un tempo assorbito interamente dal lavoro, che  quindi veniva equamente diviso con il partner. Il furto di risorse e dimensioni temporali costantemente compiuto dalle famiglie schiaviste erodeva anche lo spazio privato della vita familiare. 

La famiglia come spazio della resistenza

V’era uno specifico modo, istituzionalizzato, ideato dal sistema schiavista per erodere la struttura familiare delle persone nere schiave e garantire una produzione costante di capitale umano, la forzatura alla gestazione. Gli stupri erano una pratica diffusa che permetteva di accrescere la presenza di schiavi nelle piantagioni e serviva a mantenere un controllo violento e pervasivo sulle biografie delle donne schiave. La schiavitù, infatti, veniva ereditata per via matrilineare mentre la genitorialità paterna era completamente negata agli uomini schiavi. Si realizzava così un doppio proposito, da un lato evitare una responsabilità genitoriale agli schiavisti stupratori e dall’altro impedire che sulla prole ci potesse essere un’influenza di potere contrastante rispetto a quella proprietaria degli schiavisti stessi. Gli uomini schiavi, a livello pratico, non venivano considerati padri dal sistema. Eppure padri lo erano, come pure le donne nere erano madri, e nella dimensione familiare e comunitaria delle piantagioni, questi legami facevano parte della resistenza. 

Aborti e libertà di agency

Le donne nere erano depositarie di saperi e capacità e si curavano di redistribuirle nella comunità. La pratica abortiva era una di queste competenze che assumeva, all’interno del sistema suprematista, una connotazione di resistenza e cura. Gli aborti e le pratiche di prevenzione delle gravidanze erano un dispositivo che non solo tutelava le donne, per quanto possibile, da gravidanze indesiderate e forzate nelle loro vite, ma permetteva loro di esercitare una qualche forma di agency sulla futura vita dei figli. Partoriti in schiavitù, essi avrebbero subito il destino patito dalle madri, soprattutto le figlie. Le pratiche abortive e quelle di gestione della gravidanza erano fortemente contrastate dal sistema suprematista schiavista che cercava, in ogni modo, di cancellarne la dignità strutturando un’idea pregiudizievole di arretratezza rispetto a pratiche funzionali e tradizionali. 

La cattiva medicina e le cattive madri

Le competenze ostetriche delle donne nere venivano considerate concorrenziali all’ostetricia bianca e per eliminarle dal tessuto sociale erano qualificate come inferiori e contrarie alle pratiche mediche socialmente accettate. L’aborto tradizionale era sia un’alternativa sia uno strumento autodeterminativo a disposizione dalle donne nere schiave. Le pratiche abortive e contraccettive erano una forma di resistenza e testimonianza, un’affermazione costante di potestà sul proprio corpo nonostante la continua violenza oppressiva del sistema schiavista.

Motivo per cui aborti e infanticidi venivano praticati, ma presentati e interpretati dalla popolazione bianca come prova di una maternità inadeguata che giustificava, anche dopo l’abolizione legale dello schiavismo, una visione discriminante della maternità nera e delle donne nere.

Con l’abolizione formale, ma non sostanziale, dello schiavismo la mentalità schiavista e proprietarista si mescolò con gli ideali capitalisti che necessitavano di questa subordinazione su base razziale per poter mantenere in essere la società del privilegio proprietario e bianco. Lo sfruttamento della forza lavoro nera continuava ad accompagnarsi allo sfruttamento del corpo nero e del corpo nero femminilizzato in quanto capace di generare altra forza lavoro.

Non tutte le persone potevano abortire, nemmeno con Roe V. Wade

Il ribaltamento della sentenza Roe v. Wade rende la pratica abortiva ancora più precaria, ma per la maggior parte delle donne povere e razzializzate essa era già inaccessibile, soprattutto in quegli stati del sud in cui la mentalità suprematista è spesso compagna fedele di quella antiabortista. L’illegalità dell’aborto rende le gestazioni nuovamente forzate e riprende quella mentalità, erede dello schiavismo, evidentemente ancora presente negli Stati Uniti. Il controllo della funzione riproduttiva delle donne riprende proprio i percorsi di oppressione nei confronti delle donne schiave nere ed è indicativo di quanto la forma mentis del pensiero statunitense sia ancora imperniata su quei principi proprietaristi, suprematisti e razzisti. Le letture relative a questo storico ribaltamento – Roe v. Wade risale al 1973 – sono molteplici ma devono essere esplorate in tutte le loro dinamiche in modo da scorporare tutti gli elementi distintivi e costitutivi del pensiero che ha portato al sovvertimento della sentenza.

Capitale riproduttivo e xenofobia

Si tratta a tutti gli effetti di una violazione di diritti umani basilari, in parte diritto alla salute e in parte all’autodeterminazione, in parte diritto alla vita e in parte diritto alla progettualità, e al contempo di una forzatura incernierata alla mentalità proprietaria statunitense che considera le donne una risorsa fisica, meccanica, in grado di generare capitale riproduttivo. E non un capitale riproduttivo qualunque, ma americano, caratterizzato in antitesi alla mentalità xenofoba e razzista che fomenta l’attaccamento ad un’America bianca e senza immigrati che produce questo vuoto legale.

L’aborto sarà sempre accessibile alle persone ricche, soprattutto a quegli uomini proprietari che desiderano evitare la paternità. Sembrerà paradossale, ma le uniche persone a godere del diritto di aborto negli Stati Uniti saranno proprio le persone che hanno contribuito a negarlo, le cui compagne potranno pagare i costosi servizi sanitari, trasporto compreso, necessari all’interruzione volontaria di gravidanza. Un privilegio limitato alle donne ricche, negato di fatto a tutte le altre. 

Il che significa che la finalità di queste decisioni non incide sulla vita di quegli americani bianchi e ricchi, ma su quella delle persone americane povere, razzializzate e immigrate. Le stesse che la propaganda dichiara di non volere ma di cui ha estremo bisogno per mantenere in essere il sistema su cui si reggono gli Stati Uniti. L’iniquità e la diseguaglianza, lo sfruttamento e la povertà diffusa sono gli elementi alla base del privilegio e della ricchezza. 

L’assenza di una tutela, reale, pervasiva e con valenza federale, unita alla diffusione di ideali antiabortisti filoreligiosi garantisce una produzione costante e continua di persone acuendo le già precarie condizioni della popolazione statunitense povera. 

“Ain’t I a woman?”

Negare la matrice razzista e l’eredità schiavista nella negazione di questo diritto essenziale rischia di offrire un gratuito nascondimento alle dinamiche profonde che viziano le tutele giuridiche negli Stati Uniti.  Ricordando le parole usate da Sojourner Truth nel suo discorso del 1851 alla Women’s Convention in Ohio: “I have borne 13 children, and seen most all sold off to slavery, and when I cried out with my mother’s grief, none but Jesus heard me! And ain’t I a woman?”, è possibile comprendere quanto la negazione del diritto all’aborto, le gravidanze forzate e l’idea che le donne, alcune più di altre, siano e debbano essere necessariamente madri sia legata alla mentalità schiavista e razzista degli Stati Uniti d’America.

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