Amira Hass: la verità sulla pulizia etnica che si sta compiendo in Palestina
Nei giorni dei duri attacchi in Palestina, la giornalista israeliana Amira Hass torna a parlare della resistenza del popolo arabo e della sinistra israeliana
Nei giorni dei duri attacchi in Palestina, la giornalista israeliana Amira Hass torna a parlare della resistenza del popolo arabo e della sinistra israeliana
Amira Hass, giornalista e scrittrice israeliana divenuta nota a livello internazionale per aver parlato nei suoi pezzi della vita in Palestina durante la guerra, torna in questi giorni a parlare delle condizioni del popolo palestinese e della verità sull’occupazione di Israele.
Hass, dal 2001 circa, si occupa di una rubrica per Internazionale, attraverso la quale ci arrivano testimonianze concrete su come sia la vita in Palestina.
Spesso nei suoi articoli Amira Hass ha sottolineato quanto al governo israeliano sia concesso di comportarsi come se fosse al di sopra della legge dalle potenze internazionali. Negli ultimi venticinque anni le mire colonialiste d’Israele si sono tutt’altro che attenuate; sempre più terre vengono strappate ai palestinesi, le condizioni del popolo sono quanto mai precarie e tutto questo sta fomentando nelle fila della resistenza la necessità di dare sfogo a rabbia e odio nei confronti del nemico.
Le riflessioni e i reportage di Hass sono fondamentali per restituire un quadro completo e complesso della situazione, delle ragioni profonde degli scontri e della precarietà della vita palestinese. Proprio in uno dei suoi ultimi articoli, Amira Hass riporta una conversazione con Abd Fattah Isfaki, uomo palestinese che vive a Sheick Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est in cui il governo israeliano sta operando un’epurazione dei palestinesi.
Isfaki e la sua famiglia, come altri abitanti palestinesi della zona, sono in attesa dell’udienza di appello, presso la corte suprema israeliana, contro l’ordine di espulsione dalla zona. Prima della guerra del 1948 la famiglia di Isfaki viveva a Baqaa, nella parte meridionale di Gerusalemme; i combattimenti li obbligarono a fuggire e, a seguito dell’occupazione israeliana, fu fatto loro divieto di rientrare nella loro casa di proprietà. Dopo aver vissuto per un periodo in una cisterna della città vecchia, fu affidata loro un’abitazione a Sheick Jarrah.
Ben presto, però, le pressioni del governo israeliano hanno iniziato a farsi sentire e sempre più famiglie ebree hanno iniziato a occupare le case della zona. E da circa 13 anni per tutte le famiglie palestinesi del quartiere è iniziato un calvario giuridico per evitare l’espropriazione.
Solo quando nel 2008 ci hanno chiesto di lasciare le case e hanno espulso la mia vicina Fawzia al Kurd, allora ho cominciato a capire che il pericolo di espropriazione era reale. Da 13 anni ormai viviamo sotto questa minaccia.
La storia di questo quartiere è solo un esempio di quelle che sono, ad oggi, le condizioni in cui versa il popolo palestinese. La preoccupazione di Isfaki, riporta Amira Hass, è per le generazioni più giovani che stanno crescendo in un clima d’odio che non può che danneggiarli:
Quando sanno che ci sono dei piani per cacciarli di casa, diventano naturalmente carichi di odio, arrivano a pensare che tutti gli ebrei sono ladri, che sono il nemico. Solo grazie agli attivisti ebrei che vengono qui ogni settimana a contestare le espulsioni capiscono che non tutti gli ebrei sono così. Noi non siamo contro il popolo ebraico, io glielo spiego. Noi non abbiamo educato all’odio i nostri figli e i nostri nipoti. È la realtà che produce odio.
Le testimonianze di Amira Hass, così come quelle di altre personalità della sinistra israeliana come Gideon Levy o di cultura ebraica come Moni Ovadia, sono l’unica, debole, denuncia interna al governo segregazionista israeliano. Anche il clima interno, infatti, è abbastanza teso. Prendiamo come esempio la vicenda di Hallel Rabin, ragazza israeliana che lo scorso anno è stata arrestata per aver rifiutato di prestare servizio militare, obbligatorio in Israele per ambo i sessi.
Hallel, però, non ha chiesto l’esonero come molti fanno. Si è presentata in un centro di reclutamento e ha dichiarato che non sarebbe diventata una soldata perché contraria alla violenza. La Commissione di coscienza, che si occupa degli esoneri, ha respinto la sua richiesta di prestare servizio civile e l’ha incarcerata, perché per il governo d’Israele questa è considerata una presa di posizione politica di opposizione alla violenza esercitata sui palestinesi. Nella sua richiesta, però, Hallel Rabin non parla mai di occupazione israeliana o di colonialismo, ma solo della sua repulsione alla violenza:
L’omicidio, la violenza e la distruzione sono diventati talmente comuni che il cuore s’indurisce e li ignora. Il male è ormai uno di famiglia, dunque lo difendiamo e lo giustifichiamo, chiudiamo gli occhi e neghiamo le nostre responsabilità. Non sono pronta a partecipare a una realtà violenta. Non sono pronta a far parte di un esercito soggetto alla politica di un governo che va contro i miei valori.
Femminista un po' filosofo. Cresciuto in riva al mare. Scrivo per ampliare il mio sguardo sul mondo e provare a interpretare la realtà.
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