Argentina, per aborti spontanei e bambini nati morti le donne rischiano il carcere

Nel Paese sudamericano l'interruzione volontaria di gravidanza è diventata legale dal 2020, ma non vale così ancora per tutte: a rischio sono soprattutto le donne che versano in condizioni economiche difficili.

In Argentina l’aborto è diventato legale dal 2020, ma sono ancora tante le donne nel Paese a essere criminalizzate per averlo fatto o per avere tentato di farlo. In quell’anno si è deciso che l’interruzione di gravidanza volontaria fosse permessa a 14 settimane e successivamente se si è vittime di situazioni come stupro o casi in cui la salute della madre risulta essere a rischio. Secondo uno studio uscito in quel periodo, tra il 2012 e il 2020 più di 1.500 donne sono state accusate o incriminate per avere deciso di abortire.

Questo genere di libertà non è stata però ancora estesa a tutti e sono ancora tante le donne che si sentono in pericolo. In quella stessa ricerca si è evidenziato che 37 persone sono state accusate di omicidio in seguito a un aborto spontaneo e perché il loro bambino era nato morto. Sulla base delle ricerche effettuate dal Centro di Studi legali e sociali di Buenos Aires (CELS) a essere a rischio sono soprattutto le donne migranti che versano in situazioni economiche particolarmente difficili.

A monitorare su quello che sta accadendo ci sta pensando Natalia Saralegui Ferrante, professoressa di diritto dell’Università di Buenos Aires, che ha rivelato di essere a conoscenza di almeno sei donne che si trovano in carcere o che sono in attesa di processo per emergenze ostetriche in Argentina. Tre di queste, stanno addirittura scontando l’ergastolo per omicidio.

A loro si aggiunge la storia di un’altra, chiamata La China, una 43enne venezuelana che vive a Buenos Aires, che a dicembre 2020 ha iniziato a soffrire di forti crampi addominali a cui non aveva dato molto peso pensando che fossero dovuti al suo ovaio policistico, problema di cui soffre da tempo. Ben presto ha però iniziato a sanguinare copiosamente (non si era resa conto di essere incinta fino a otto mesi del suo primo figlio e fino a sei del secondo): lei sostiene di avere raccolto quelli che credeva fossero coaguli di sangue in un lenzuolo e di averli gettati in un cassonetto vicino al suo. La polizia l’ha però arrestata dopo avere scoperto il corpo di un neonato a 39 settimane di gestazione.

Ora La China si trova sotto processo per avere ucciso il suo bambino. Nonostante questo, ha provato a difendersi in Tribunale: “Non mi sento di avere ucciso nessuno. Ho un problema di salute” – sono state le sue parole davanti alla giuria.

Ferrante sta così cercando di impegnarsi in prima persona per chi sta affrontando vicende simili e per permettere loro di ritrovare la libertà: “Queste sette storie di cui siamo a conoscenza non sono certamente le uniche – ha detto a The Guardian -. È molto grave che ci siano donne in carcere per atti che non sono reati”. La legale è così pronta grazie al supporto di molti attivisti che operano nel Paese a dare supporto ad aiutare chi ha una situazione simile e dare loro una via di uscita.

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