La canzone di Ernia sull’aborto volontario visto dal punto di vista di un uomo era necessaria?
Se affrontiamo il tema dell'aborto a partire dalle parole di Ernia, e non da quelle di una persona che ha abortito, allora abbiamo un problema.
Se affrontiamo il tema dell'aborto a partire dalle parole di Ernia, e non da quelle di una persona che ha abortito, allora abbiamo un problema.
Attenzione: provare a spiegare perché, in taluni casi, sarebbe bene che gli uomini cisgender non parlassero di certi argomenti è già di per sé un invito al linciaggio. Farlo rispetto a un testo intriso di retorica dolente, inno alla fragilità tutta al maschile, è un vero e proprio harakiri. Ma chi sono io per sottrarmi a questa combo imperdibile? Andiamo.
Il testo Buonanotte del cantautore Ernia, contenuto nell’album Io non ho paura, racconta di un aborto a partire dal punto di vista dell’uomo, anzi, del “padre”, come lui stesso lo definisce nel brano, rivolgendo a questo “bambino mai nato” un saluto di commiato e una richiesta di perdono.
In pochissimo tempo, Buonanotte è riuscita a conquistare pubblico e critica, diventando da una parte la colonna sonora di molti video di Tik Tok, dall’altra un piccolo gioiellino di grazia e poesia capace di smuovere le corde più sensibili dell’animo umano. Anche di quelli più intellettuali.
Prima di iniziare a scrivere, ovviamente, ho ascoltato più volte la canzone di Ernia, ho letto in maniera approfondita il testo e i commenti, visto il video e visionato le interviste in cui l’autore parla del brano. Insomma, ho affrontato la questione con un certo grado di serietà, che non mi venga opinato.
Per il resto, mi duole (ma non troppo) constatare che non ci stiamo confrontando con il nuovo Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci in chiave rap, e che, per dirla facile, questo brano è intriso di una retorica estremamente banale sul tema, che è la stessa che ci portiamo dietro da più di 40 anni. Sono il dolore, la sofferenza, la paura di sbagliare, il tutto condito da ruoli di genere quali madre e padre (per di più, se scegli di interrompere una gravidanza è proprio perché non vuoi diventare né madre né padre), che trovano il perfetto coronamento nella personificazione di questo bambino (o bambina, che si sarebbe chiamata Sveva, si alleghi il codice fiscale) che diventa addirittura l’interlocutore privilegiato. Ecco qua, mixiamo tutti questi temi, condiamoli con una narrazione dolente, facciamo una bella shakerata e otterremo la retorica dominante sull’aborto in Italia.
Al di là del mio personale gusto musicale, ovviamente, il centro della questione appare un altro, e cercherò di andarci dritta, per quel che serva. Il fatto che un uomo scelga di parlare di un tema come l’aborto, un’esperienza che non investe il suo corpo e la sua scelta riproduttiva, di fatto, ancora una volta, toglie spazio e parola a chi quell’aborto l’ha vissuto personalmente.
Ancora una volta, ci troviamo di fronte a chi fa uso del suo privilegio, che non è quello soltanto di essere uomini cisgender, ma anche in una posizione di potere, per prendersi uno spazio che non gli appartiene, e che ancora una volta, ci viene sottratto. Ancora una volta, autorizziamo il fatto che uomini parlino con uomini di temi che non appartengono agli uomini, senza porsi il problema del fatto che magari manchi qualcuno all’appello.
L’aborto è un tema, che per quanto assunto in maniera acritica, è inevitabilmente politico. Nel nominarlo e affrontarlo, pur portando le cifre emotive di un’esperienza, si sta operando un atto politico. Posti a sedere, nei luoghi della parola, e dunque del potere, ce ne sono troppo pochi. Mi piacerebbe dire, ecumenicamente, che c’è posto per tutti, ma non è così, e lo sappiamo bene.
E ancora una volta, grazie a questo brano, quelle a restare in piedi a osservare lo spettacolo della nostra vita raccontato da altri, siamo noi, in contemplazione di chi ha scelto di appropriarsi della nostra esperienza e mettersi al centro, restituendosi un protagonismo sui nostri temi. E questo no, mi dispiace, ma non vogliamo più tollerarlo.
Attenzione, siamo di fronte all’altare della fragilità maschile, all’uomo che si concede, in una tenera elargizione, di consegnarsi ai miei occhi finalmente volubile, oserei dire “dolcemente complicato”. In questi casi, la storia ci riconsegna all’accoglimento di questa bonaria elargizione che è la vulnerabilità dell’uomo di fronte ai suoi vissuti di dolore. Ancora una volta chiamata ad accogliere, ancora una volta chiamata a farmi da parte, poco importa che è del mio corpo, che si sta parlando. E guai, a dire che quel dolore e quel vissuto non sono al centro.
Mettere in discussione un assetto patriarcale di appropriazione dei vissuti e delle nostre lotte, non significa delegittimare i vissuti emotivi che un uomo può provare rispetto all’aborto, ma se essi diventano il faro di una narrazione su un tema che non riguarda l’assoggettamento dei loro corpi e delle loro scelte autodeterminative, allora diventa fortemente problematico.
Se affrontiamo il tema dell’aborto a partire dalle parole di Ernia, e non da quelle di una persona che ha abortito, abbiamo qualcosa di ancora più problematico. Se non ci domandiamo perché questo testo non lo abbia scritto una persona che ha abortito e perché abbiamo sempre un disperato bisogno di qualcuno che ci traduca la vita, allora il piano del discorso è monco.
Se riconosciamo e rivendichiamo uno spazio di parola per il dolore di un uomo di fronte all’aborto, e continuiamo a calpestare la possibilità che quello spazio debba essere lasciato a chi quotidianamente vede i propri vissuti silenziati, negati e stigmatizzati, allora il problema diventa ancora più grosso.
Abbiamo bisogno di un uomo per parlare di aborto? A quanto pare sì, perché ancora oggi è l’unica parola a cui viene data credibilità e valore. E se l’aborto, sul mio corpo di donna diventa arma di ricatto, colpevolizzazione e stigma sociale, nelle parole di Ernia diventano la poesia di fronte alle quali commuoversi fino alle lacrime. Perché è lui, in quel momento, che mi sta facendo esistere, in quelle parole, che ancora una volta, sottraggono suono alla mia voce.
E se farsi da parte e cedere quella fetta di protagonismo decostruendo i propri retaggi patriarcali, che sarebbe l’unica strada perseguibile, risultasse un’operazione troppo lunga e articolata, poco male. Non siamo qui per educare e accompagnare, meno che mai per attrarre pietosa benevolenza. Noi siamo qui per riprenderci la centralità dei nostri vissuti e delle nostre istanze, e in questo caso dei nostri aborti. Passate questo cazzo di megafono!
Psicologa, femminista intersezionale, creatrice del progetto "Ivg, ho abortito e sto benissimo".
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