Il riscaldamento globale non ha effetti devastanti solo sul nostro pianeta, ma anche sul benessere di buona parte della sua popolazione; il fresco sta diventando un bene sempre più richiesto, ma non tutti dispongono degli strumenti necessari a ottenerlo. Questa nuova forma di disuguaglianza sociale ha un nome, si chiama cooling poverty.

Cos’è la cooling poverty

A definire per primo il fenomeno è stato uno studio italiano, condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia assieme alla Fondazione CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), all’Università di Oxford e alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, pubblicato su Nature Sustainability; come spiega Antonella Mazzone, prima autrice dello studio e ricercatrice dell’Università di Bristol affiliata al NICHE della Ca’ Foscari, al CMCC e all’Università di Oxford “Cooling poverty è la condizione in cui organizzazioni, famiglie e individui sono esposti agli effetti dannosi del crescente stress da caldo umido a causa di infrastrutture inadeguate. La cooling poverty si differenzia dalla povertà energetica in quanto tiene in considerazione non solo la dimensione del reddito familiare, del costo dell’energia e delle condizioni abitative, ma tutta una infrastruttura fisica, sociale e intangibile che se non funziona pone le persone in una condizione di vulnerabilità al calore eccessivo”.

Per infrastruttura fisica si intende la disponibilità di ventilatori o condizionatori, ovvero di dispositivi per il raffrescamento, ma anche la presenza di aree verdi in città, mentre l’infrastruttura sociale comprende le reti di supporto familiare o amicale; infine, all’interno dell’infrastruttura intangibile rientrano fattori come educazione e conoscenza, ovvero l’insieme delle pratiche culturali e dei comportamenti che una comunità adotta per proteggersi dal caldo estremo.

Il gruppo di ricercatori ha individuato 5 dimensioni per definire la cooling poverty, ovvero:

  • Il clima: non ci si riferisce solo alle temperature medie, ma anche alla percentuale di umidità visto che, come spiega Mazzone, “Anche all’interno dei confini di una stessa città, possono esserci differenze molto significative nei microclimi locali”.
  • Infrastrutture e asset: non si intende solo il possesso di dispositivi di raffrescamento, ma anche l’accesso alla fornitura di acqua pulita e sicura, le decisioni rispetto all’abbigliamento, il livello di efficienza energetica del patrimonio edilizio e la presenza di spazi verdi o blu (come laghi o fiumi) urbani.
  • Disuguaglianze sociali: con questo si intende la capacità di adattamento della popolazione in termini di genere, età, occupazione e livelli di istruzione.
  • Salute pubblica: vengono presi in considerazione tassi di morbilità (ovvero la frequenza percentuale di una malattia in una collettività) e mortalità come conseguenza della mancanza delle infrastrutture prima citate.
  • Aspetti legati all’istruzione e agli standard lavorativi: come spiega Mazzone “vanno da attributi specifici dell’individuo, come il livello e la qualità dell’istruzione ricevuta e la conoscenza personale su come proteggersi dai rischi del caldo, fino alle normative locali e nazionali sull’esposizione al calore, nonché agli strumenti politici generali, come i bollettini di previsione e i piani d’azione per il caldo”.

Come spiega Giacomo Falchetta, ricercatore del CMCC e co-autore dello studio, la povertà di raffrescamento deve essere valutata tenendo conto di una serie di indicatori, a causa della sua natura multidimensionale: “Per esempio, non è sufficiente quantificare la percentuale di famiglie sprovviste di aria condizionata, ma anche l0intensità e la frequenza a cui esse sono esposte al calore, la qualità del contesto abitativo e delle infrastrutture pubbliche all’interno del quale abitano, ma anche l’accesso a beni e servizi a cui dispongono, come l’acqua potabile, e la regolamentazione legata all’esposizione al calore (sul posto di lavoro, per esempio) o la consapevolezza generale dei rischi legati al caldo eccessivo”.

Le categorie più esposte alla cooling poverty

La cooling poverty si inserisce a pieno titolo nel filone delle disuguaglianze già esistenti, andando quindi a colpire le categorie generalmente più marginalizzate, ovvero le famiglie a basso reddito, appartenenti a minoranze etniche, che vivono in quartieri con scarsità di servizi e di spazi verdi a disposizione.

Ma c’è un altro tema che riguarda la cooling poverty, la rapidità di invecchiamento della popolazione: gli anziani, infatti, hanno probabilità più alte di avere patologie che li rendono vulnerabili all’esposizion al calore. Tanto che, entro il 2050, potrebbero essere tra i 177 e i 246 i milioni in più di anziani a essere esposto a livelli pericolosamente alti di calore.

Un tema che potrebbe avere ripercussioni estremamente gravi anche a livello economico: “Le pressioni per la sanità pubblica e per i governi arrivano da due fronti: da un lato un aumento dei tassi di ospedalizzazione, dall’altro un aumento delle spese delle famiglie per servizi sanitari in corrispondenza di temperature estreme più frequenti. Gli effetti macroeconomici sono ancora da misurare – spiega la professoressa di economia ambientale all’Università Ca’ Foscari Venezia e ricercatrice al CMCC Enrica De Cian – Bisogna poi aggiungere gli impatti sulla produttività dei lavoratori, sulle rese agricole, sulla disponibilità di acqua, sulla produttività degli allevamenti che portano ad una significativa riduzione della capacità di produrre beni e servizi e a un conseguente calo del PIL”.

Come affrontare la cooling poverty

Siamo destinati a vivere in un mondo sempre più caldo, perciò l’unica soluzione alla cooling poverty sembra essere quella di adattarvisi, tenendo conto delle 5 dimensioni del fenomeno sopra citate.

Puntare ai sistemi di condizionamento, ad esempio, non è una soluzione sufficiente, perché può acuire le disuguaglianze, ad esempio con l’effetto heat dump, per cui tenere il condizionatore acceso per rinfrescare gli spazi interni causa un riscaldamento dell’ambiente circostante. Ci sono poi contesti in cui garantire l’acqua potabile e l’accesso ai servizi igienico-sanitari sarà indispensabile, mentre in altri si dovrà intervenire dal punto di vists urbanistico, migliorando la distribuzione alle aree verdi per contrastare l’effetto “isola di calore” nelle città.

Importantissimo, poi, agire anche sul piano della comunicazione: “L’Italia, per esempio, ha implementato nel 2004 un sistema di allerta per le ondate di calore attraverso i bollettini consultabili anche dall’app Caldo e Salute – ha spiegato De Cian – Dai risultati preliminari di uno studio che stiamo portando avanti in Ca’ Foscari emerge un’altissima efficacia di questa politica in termini di riduzione dei tassi di mortalità. Altre politiche importanti sono quelle che regolamentano le temperature massime alle quali è possibile lavorare. In Spagna questo tipo di regolamentazione esiste dal 1997, mentre in Italia l’anno scorso è stata introdotta la cassa integrazione per il caldo estremo con il decreto legge 28 luglio 2023, n. 98, convertito nella legge 127/2023. Questi sono due esempi di interventi di policy che vanno ad agire sulla quarta e quinta dimensione della cooling poverty”.

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