Fast Fashion, se i vestiti costano poco, qualcun* è sfruttato

Il fast fashion è un’industria delocalizzata, che produce lontano da dove avviene il consumo o da dove si svolge il mercato principale. In poche parole, si produce nei paesi del Sud del mondo, ma si consuma principalmente nel Nord o nei centri urbani più ricchi del Sud medesimo.

Una serie di manichini in via Torino si offre allo sguardo, protetta da un vetro lucido e largo. Etichette grandi come i miei palmi urlano che con 14 euro si possono avere dei jeans nuovi, con 6 euro un body a maniche lunghe, con 10 un maglione con girocollo a costine, che 12 euro bastano per un parka leggero con tanto di cappuccio e che con altri 8 euro si infileranno i piedi in un paio di stivaletti bassi imbottiti e morbidi.

Conto, a mente, e penso tra me e me che quasi mi basterebbero le dita per portare a casa la somma: 50 euro. Con 50 euro, quel manichino mi promette tutto un abbinamento. La gente entra ed esce dal negozio, le buste di carta – perché anche Primark ci tiene al pianeta – gonfie e straripanti. Stomaci ingolfati dalla sete di avere e avere di più. Sempre di più, ad un prezzo piccolissimo. Ed ecco dove sta accovacciato l’inganno dell’accumulo e del consumo.

Frequenza, bisogno e prezzi sono un’equazione che, sempre, dà come risultato lo sfruttamento. Nel caso del fast fashion un’intera classe di esseri umani, principalmente donne e bambini, vengono abusati dalla volontà di produrre un’offerta gargantuesca da dare in pasto al Nord del mondo consumatore.

Primark, Zara, H&M e gli altri

Primark, come pure Zara, H&M e tutti gli altri brand globalizzati che vendono prodotti a prezzi ridotti in quantità esorbitanti alla massa sono marchi fast fashion. Il Fast Fashion si qualifica come un’industria basata su un produzione tessile rapida, rapidissima, con tempi di ricambio, espressi nell’aggiornamento delle vetrine, ridotti. Questi tempi ristretti si chiamano lead time e al ridursi del lead time, aumenta l’offerta. Per garantire tempi e, soprattutto, prezzi, l’industria tende a seguire una procedura uniformante di produzione che si concentra per ridurre all’osso i costi. Le sedi in cui sono incanalate le riduzioni sono i materiali, gli ambienti di produzione e il personale assunto.

Dove vengono fatti i vestiti di Primark?

Il fast fashion è un’industria delocalizzata, che produce lontano da dove avviene il consumo o da dove si svolge il mercato principale. In poche parole, si produce nei paesi del Sud del mondo, ma si consuma principalmente nel Nord o nei centri urbani più ricchi del Sud medesimo. Le fabbriche sono ubicate in luoghi in cui le restrizioni ambientali e umanitarie sono molto ridotte.

Ad esempio Primark produce i suoi abiti in Bangladesh, India, in Cina e Pakistan. Reperire l’informazione sul sito non è nemmeno così semplice, anzi, al suo posto si trova una pagina che istruisce sull’eticità del brand e sulla promessa di fornire la localizzazione delle industrie viene offerto un link. Il collegamento, però, si apre sulla home page del sito, la vetrina acquisti.

Googlando direttamente Global Sourcing Map di Primark si ottiene, finalmente, una mappatura da cui si può scaricare anche il file contenente le fabbriche da cui si approvvigiona il brand. I lavoratori, si evince, sono tendenzialmente ubicati in zone in cui non sono minimamente tutelati e sono esposti a rischi ambientali e infortuni sul lavoro come prassi.

Fonte: Primark

Crollo del Rana Plaza di Savar

In molti, quando si parla di fast fashion citano il disastro del Rana Plaza, avvenuto nel 2013.
Il palazzo è crollato sui lavoratori impiegati, tra le altre cose, in alcune fabbriche tessili. Il giorno precedente erano stati notati dei cedimenti strutturali, delle crepe, che hanno spinto i proprietari dei negozi e della banca a evacuare i dipendenti. I proprietari delle fabbriche tessili, invece, hanno ordinato ai dipendenti di ripresentarsi il giorno dopo. Il crollo ha ferito 2512 persone e ne ha uccise 1134.

Spostandoci verso l’India consideriamo il caso di Ranipet, una zona nota per l’inquinamento da cromo. Lo sversamento del Cromo risale a ben 25 anni fa, ma con la scusa della già presente contaminazione le industrie continuano a scaricare il metallo che continua a infiltrarsi nella falda acquifera. L’industria tessile che offre prodotti in pelle, ad esempio, paga per l’utilizzo del cromo esavalente (Cromo VI) necessario a rendere morbido il prodotto della scuoiatura animale. Ranipet è un caso noto, ma nel mondo del tessile a prezzi ridotti con produzione dislocata si tratta di condizioni diffuse. Dopotutto, se un paio di stivaletti in 100% pelle di Mango costa 59.99 euro, da qualche parte bisognerà pur abbassare i costi di produzione.

Chi fa i miei vestiti nel fast fashion?

Chi produce i vestiti dei brand di fast fashion? Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro circa 260 milioni di bambini sono sfruttati nelle industrie del mondo, la maggior parte dei quali è impiegata nell’industria tessile che, stando al rapporto, rifornisce le vetrine dei negozi europei.

Come le vetrine di cui sopra, quelle lucide ed enormi di via Torino. Oltre ai bambini, nello sfruttamento, sono coinvolte anche le donne, spesso attirate con la promessa di guadagni sin dalla giovane età, per poi ritrovarsi in condizioni precarie e pericolose, per la loro salute e la loro attività lavorativa. Si parla di 40-60 milioni di donne sfruttate abusando del divario di genere, attingendo quindi a piene mani alle discriminazioni di sistema, violenza di genere compresa.

Le città del mondo e le grande industrie, consapevoli della velocità con cui i dati sono ormai rintracciabili, si sbracciano in promesse di “sostenibilità” future, implementando lavori infrastrutturali orientati all’ottimizzazione della produzione più che alla sicurezza dei lavoratori coinvolti. Di aprile la notizia della promessa di H&M di aumentare le tutele per ridurre la violenza di genere nelle fabbriche. L’annuncio segue la notizia della morte di Jeyasre Kathiravel, una lavoratrice violentata e assassinata dal proprio supervisore, avvenuta in una delle fabbriche che riforniscono H&M.

Fast fashion: schiavitù del nuovo millennio

La schiavitù negli USA è stata abolita nel 1865. Eppure il sistema di produzione basato sulla schiavitù è ancora in essere, semplicemente è stato dislocato. La differenza tra il prima e il dopo abolizione, che vale tanto per gli USA quanto per l’Europa, è la visibilità di tale schiavitù. Clean Clothes Campaign, un’associazione che da vent’anni si occupa di denunciare e forzare le aziende a tutelare i propri lavoratori, denuncia che nel 93% dei casi le aziende non pagano ai propri lavoratori uno stipendio dignitoso.

In poche parole, il guadagno non è sufficiente a garantire a queste persone il mantenimento autonomo. La schiavitù è ancora presente, semplicemente non è visibile nelle nostre città e riguarda donne e bambini lavoratori, poveri, razzializzati e socialmente espulsi. Invisbilizzati dalla brama di avere quel modello così simile al top di Chiara Ferragni in almeno un paio di colori. A meno che non si inizi a vedere quei cartellini che annunciano leggings per bambini a 3 euro per quello che sono: il prodotto di una schiavitù dislocata e globalizzata.

Collezioni fast fashion (non) sostenibili

Tutti i brand di fast fashion stanno annunciando e promuovendo svolte sostenibili. Offrono collezioni fatte con materiali di riciclo, in lyocell o con cotone organico. Muji, ad esempio, propone abiti in cotone 100% organico (meno impattante del cotone) a prezzi contenuti. Com’è possibile? Semplice a dirsi, basta acquisire quel più ecologico materiale dalla manodopera Uigura schiavizzata nello Xinjiang, da cui proviene il 20% della produzione mondiale di cotone.

Anche l’idea stessa dell’economia circolare incontra il paradosso della produzione. Un consumo e una produzione costanti, come quello che mantengono in essere il fast fashion non possono essere considerati sostenibili. Nemmeno se i prodotti sono fatti a partire da fibre di riciclo. In primo luogo, le fibre, a seconda della loro natura, possono subire un riciclo limitato, e in secondo luogo, finché lo scopo è il consumo assiduo, i materiali non saranno pensati per durare o non disperdere nell’ambiente frammenti, come le microplastiche che si liberano nei lavaggi a caldo delle lavatrici o, più banalmente, durante il loro uso. Il 35% delle microplastiche disperse deriva proprio dal vestiario.

Il fast fashion è una delle industrie più aggressive e preponderanti in termini di emissioni, si stima che circa l’8% del totale di GHG derivino dall’industria della produzione tessile che vanta, tra le altre cose, anche il primato in termini di speco di risorse idriche con un consumo annuo di 79 miliardi di galloni cubi di acqua. Circa il 20% di acque reflue deriva direttamente dal fast fashion.

Il fast fashio è una questione non-umana

Inoltre, il fast fashion, oltre ad abusare dei sottoprodotti del petrolio (le fibre sintetiche derivano da esso, sono plastica a tutti gli effetti) e di materiali ad alto impatto come la viscosa per la cui realizzazione è necessaria un’estrazione smodata di polpa di legno (deforestazione quindi) nonché l’impiego di agenti chimici tossici, il solfuro di carbonio – neurotossico e responsabile del solfocarbonismo, una delle prime malattie industriali riconosciute dall’INAIL – si serve spesso del pellame.

L’industria della concia è altamente inquinante, necessita di agenti chimici capaci di rendere il materiale trattabile e duraturo, per trasformare la pelle da “grezza” a “nobilitata”. La concia, però, prima di tutto deve attingere all’allevamento per reperire la propria materia prima. E sebbene vi sia una strenua difesa dell’industria come grande serbatoio di recupero dello scarto, ciò non cambia il fatto che la pelle sia considerata un bene da utilizzare e non una componente corporea scorticata da una bestia.

Inoltre, molti animali le cui pelle e pellicce vengono utilizzate non sono bestie normalmente allevate per la produzione di carne. Visoni, ermellini, struzzi (salvo qualche ristorante che si impegna per offrire menu con carni particolari), coccodrilli, serpenti, cincillà e via dicendo, non sono animali consumati per la loro carne. Il discorso, poi, si conferma miope di fronte ad una realtà potente dell’industria tessile, la già citata dislocazione.

Seppur nell’industria della concia italiana la pelle può essere un materiale di scarto, la maggior parte della pelle che viene indossata non proviene dall’Italia, ma dalle industrie dislocate nel sud del mondo. Infine, che all’industria della concia piaccia o meno, la pelle e la sua lavorazione ai fini della moda non fanno che incentivare il desiderio di possesso di un bene realizzato grazie allo sfruttamento animale. La concia incentiva l’abuso e l’allevamento tanto quanto il consumo di carne e derivati.

Una questione di classe, di ambiente e di genere

Chiaramente il fast fashion è un’industria insostenibile, il cui scopo è una produzione continua atta ad incentivare un consumo costante. Sebbene l’industria provi a nascondersi dietro facciate sempre più convincenti (come la presenza di taglie oltre la XXL che però, guarda caso, non interessa tutti i capi e non è disponibile in negozio con la stessa frequenza delle altre taglie) e talvolta riesca persino a ripulirsi l’immagine abusando delle biografie delle minoranze per spingere le sue collezioni, rimane a tutti gli effetti un fattore inquinante, estrattivo e basato sulla schiavitù di cui non abbiamo bisogno.

La sola produzione di rifiuti derivati da questo insensato consumo è esorbitante, basti pensare che circa 92 milioni di capi, ogni anno, finiscono nelle discariche dove permangono per lungo tempo o vengono dispersi nell’ambiente. La natura stessa del fast fashion è la realizzazione pratica della mentalità iper-consumista neoliberista voluta e sognata dal sistema capitalista.

Dopotutto, il fast fashion, produce più di tutto ricchezza. Una ricchezza concentrata prodotta grazie alla diffusione della povertà e dell’attività di contrasto alla sindacalizzazione dei lavoratori nei paesi del Sud mondo. Senza tutele e ricattati dal misero stipendio, spesso l’unico a disposizione, i lavoratori continuano a cucire, ad applicare etichette che recano la scritta “sostenibile” senza avere nemmeno la certezza che quel mese vedranno il misero pagamento. Se costa poco, qualcun* è certamente sfruttato e non attingere a quel mercato è un dovere di ogni persona che ha la possibilità di scegliere cosa, come e quanto consumare.

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