Donne e sport, adesso basta! Non siamo un ornamento e non lo facciamo "per sport"
Donne e sport: è ora di dire basta ai cliché, alle limitazioni, alla sessualizzazione. Perché le donne non lo fanno solo "per sport".
Donne e sport: è ora di dire basta ai cliché, alle limitazioni, alla sessualizzazione. Perché le donne non lo fanno solo "per sport".
Il 20 settembre 1973 Billie Jean King, che fino a quel momento si era guadagnata 10 vittorie nei principali tornei dello Slam, accettò la sfida del collega, iper maschilista, Bobby Riggs per quella che passò alla storia come “la battaglia dei sessi”. Riggs voleva dimostrare la spropositata differenza tra un atleta uomo e un’atleta donna, ma finì con l’incassare una sonora sconfitta per 6-4, 6-3, 6-3.
Sono passati oltre quarant’anni da quel match storico che, a suo modo, segnò una svolta epocale, soprattutto nella considerazione dello sport femminile, e oggi fortunatamente non sorprende più nessuno né che una donna possa fare sport (di qualunque genere) a livello agonistico, né che possa ottenere risultati migliori, nella propria disciplina, persino dei colleghi uomini. Pensate alla surfista brasiliana Maya Gabeira, che nel 2020 si è aggiudicata il riconoscimento per aver cavalcato l’onda più alta, battendo anche atleti uomini sulla carta molto più accreditati e tenuti anche più in considerazione.
Sono sempre più le donne che praticano sport, anche quelli che, culturalmente, sono sempre stati considerati “da uomini”, come la boxe, che ha visto eccellenze come la figlia d’arte Laila Ali o Mary Kom, o il calcio, che soprattutto negli ultimi anni ha visto crescere esponenzialmente il numero degli appassionati, anche nel nostro Paese. Ciononostante, le donne si devono scontrare ancora con stereotipi culturali – c’è tuttora chi pensa che alcune discipline non siano “roba da donne”, o che possano sfigurare il corpo o il viso femminile – ma anche economici, che non permettono loro di essere equiparate in tutto e per tutto alla regolamentazione giuridica della controparte maschile.
E questo è un problema, perché le donne non fanno sport solo per “mantenersi in forma” o come passatempo, ma spesso anche come lavoro, e sarebbe perciò davvero importante garantire loro gli stessi diritti e le medesime tutele, anche sotto il profilo finanziario.
Secondo il rapporto Women and Sport del 2016 sempre più donne, nel mondo, praticano un’attività sportiva, e chi pratica fin dalla giovane età una disciplina ha fino al 76% di possibilità di proseguire con quello sport, o comunque di restare un’appassionata di sport, per tutto il resto della vita. Il Comitato Olimpico segnala che la presenza delle atlete dal 1991, anno in cui il CIO ha stabilito che tutti i nuovi sport inseriti nel programma olimpico debbano prevedere anche eventi femminili, è di circa il 50%.
Va però detto che, a fronte di questi ottimi dati, ci sono anche situazione in cui le cose stanno un po’ diversamente: nel Regno Unito, ad esempio, alcune rilevazioni hanno riscontrato che solo il 25% delle donne pratica un’attività sportiva, a fronte del 43% maschile, con differenze che diventano evidenti in Irlanda del Nord, ad esempio, dove tra i pari età – 7 e 8 anni – il 63% dei maschi pratica sport, contro un esiguo 38% fra le ragazze. Una campagna condotta da Sport England, This Girl can, ha evidenziato che il motivo principale per cui le ragazze non facciano sport è la paura: paura di essere giudicate dagli altri in base al loro aspetto, della loro capacità di partecipare e paura del giudizio per aver scelto di dedicare del tempo a se stesse piuttosto che alle loro famiglie. Insomma, il peso dei retaggi patriarcali si fa sentire anche qui, nonostante tutto.
In Italia, invece, il report Respect-Stop Violence Against Women, realizzato dal Censis con il contributo del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri allo scopo di stimolare una riflessione collettiva sul valore sociale della donna per eliminare i comportamenti alla base della discriminazione e della violenza di genere, ha riscontrato che il 56,8% delle ragazze di età compresa tra gli 11 e i 14 anni praticano un’attività sportiva, a fronte del 65,9% maschile, con un divario di genere che aumenta con lo scorrere del tempo, tanto da arrivare a 18 con un 31,9% femminile contro il 47,4% dei ragazzi. C’è un problema di numeri anche nelle federazioni, visto che le atlete tesserate, su 4.708.741 totali, sono appena il 28%.
Ancora peggio stanno le cose se parliamo di operatori sportivi: abbiamo solo il 19,8% delle allenatrici, il 15,4% delle dirigenti di società e un misero 12,4% delle dirigenti di Federazione. Cresce, seppur in maniera minima, il numero di donne nel calcio, anche in virtù della grande impresa delle ragazze di Milena Bertolini ai Mondiali di Francia del 2019, fermate ai quarti (con l’Italia maschile invece esclusa clamorosamente dai Mondiali di Russia 2018): sono solo il 2%, ma sono in crescita, visto che nel 2018 le tesserate sono state 23.903, contro le sole 8 mila di vent’anni fa.
Ancora oggi lo sport che conta più tesserate è la pallavolo, dove su 331.843 atleti il 77% è donna. Eppure, anche in questa disciplina permangono importanti limitazioni, soprattutto dal punto di vista contrattuale, che non permettono alle atlete di essere considerate professioniste a tutti gli effetti.
È di poche settimane fa la notizia della citazione rivolta dalla squadra del Pordenone alla sua ex pallavolista Lara Lugli, rimasta incinta e perciò costretta a interrompere il contratto che la legava alla società friulana. Lugli, andando a richiedere lo stipendio del mese di febbraio, durante il quale si era regolarmente allenata, ha ricevuto un atto di citazione in cui la società le imputava un calo generale nel rendimento della squadra dopo il suo abbandono, la perdita di alcuni contratti con gli sponsors, dichiarando inoltre che “La signora Lugli che all’epoca dell’ingaggio aveva 38 anni compiuti, ha taciuto al momento della trattativa contrattuale la sua intenzione di avere dei figli”.
Strano ma vero, le cose nel mondo dello sport italiano stanno così: le atlete donne sono considerate dilettanti, anche se militano in campionati di pari valore rispetto ai colleghi uomini, e non hanno tutele per quanto riguarda maternità, pensione, malattia e infortuni.
Le stesse calciatrici, che pure a livello di risultati ultimamente hanno fatto meglio della Nazionale maschile, sono considerate dilettanti; un primo, timido passo si è avuto nel 2020, quando il Senato ha approvato l’emendamento alla Legge di Bilancio per cui, per tre anni, appunto a partire dal 2020 e quindi anche per 2021 e 2022, gli oneri previdenziali per gli stipendi delle atlete professioniste generalmente incombenti sulle società sportive saranno a carico dello Stato, nel limite di 8 mila euro all’anno per persona. Nella manovra si è inserita anche la FIGC., che ha deciso di iniziare un progetto graduale teso proprio al riconoscimento del professionismo femminile nel calcio a partire dalla stagione 2022/23, rinunciando di fatti ai primi due anni di contributi statali, ma iniziando un percorso importante, soprattutto a livello simbolico.
Diventare professioniste significherebbe stipulare un contratto ai sensi della legge 91 del 23 marzo 1981 – quella che riconosce e disciplina il professionismo sportivo di atleti e tecnici, garantendo loro le tutele e i diritti riconosciuti ai lavoratori subordinati – godendo quindi anche di un trattamento previdenziale e pensionistico, oltre naturalmente al diritto alla maternità.
Anche nel resto del mondo qualcosa si muove: dopo la battaglia dell’atleta Allyson Felix, cui si è unita anche la tennista Serena Williams, il colosso dello sportswear Nike ha accettato di eliminare le discriminazioni verso le atlete incinte, cessando quindi le riduzioni contrattuali nel periodo pre e post maternità cui fino a quel momento erano sottoposte.
Facendo una rapida ricerca su Google in cui si digitano le parole “giornaliste sportive in Italia” i risultati sono più o meno questi:
Le più sexy giornaliste sportive
La top 11 delle giornaliste sportive
Le giornaliste sportive più belle
Praticamente nessuna parola su quante siano le giornaliste sportive in Italia; volendo fare una ricerca in questo senso, infatti, troviamo solo dati riferiti al giornalismo in generale, in cui predomina comunque la componente maschile.
A livello europeo, un sondaggio tedesco condotto nel 2011 ha preso in esame 22 Paesi, 80 giornali e un totale di 11.000 articoli separati, da cui è emerso che la percentuale complessiva di articoli di giornaliste donne era dell’8%. Parliamo quindi di cifre piuttosto esigue, nonostante negli ultimi anni il numero di professioniste donne nel giornalismo sportivo sia cresciuto.
La prima direttrice sportiva femminile di un quotidiano nazionale del Regno Unito, Alison Kervin, è stata nominata nel 2013, alla guida del Mail on Sunday; un’eccezione in positivo è rappresentata da Veronica Diquattro, Executive Vice-President di DAZN per il Sud Europa, responsabile per il mercato Italia e Spagna del servizio di streaming sportivo, che abbiamo intervistato.
Per il resto, al di là dell’ambito giornalistico, il 33% dei membri CIO/Comitato Olimpico Internazionale è donna; il 45,4% delle posizioni nelle 27 Commissioni CIO sono occupate da donne, ma di contro solo il 30% delle Commissioni CIO sono presiedute da donne (8 su 27). Se consideriamo la governance internazionale dello sport, su 206 Comitati Olimpici Nazionali, appena 17 sono presieduti da donne (il 9%) e 33 hanno delle donne come segretario generale (18%); infine, su 35 Federazioni Internazionali Sportive, ci sono solo presidenti donna (6%) e 6 segretari generale (17%).
Come accennato poco sopra, è ancora piuttosto frequente che la figura femminile nello sport sia sessualizzata, ma non accade solo nel caso delle giornaliste, di cui viene valutata l’avvenenza più che la preparazione. Certi ruoli, frutto di una mentalità maschiocentrica per cui lo sport e tutto ciò che gira intorno è pensato esclusivamente per il piacere maschile, sono un fulgido esempio di mercificazione esplicita del corpo delle donne.
Pensiamo agli incontri di boxe, e alle ragazze che, fra una ripresa e l’altra, sfilano sul ring per indicare a che round è giunto l’incontro (una figura a suo modo iconica che si ritrova anche in diversi film), alle cheerleader, che nonostante siano atlete a tutti gli effetti, vengono spesso ipersessualizzate, tanto da dover accettare regolamenti che vietano loro di frequentarsi con gli atleti, ma non il contrario, o alla figura delle “ombrelline”, quelle ragazze, chiaramente di particolare avvenenza, che non hanno altro compito se non quello di reggere un ombrello ai piloti di Formula 1 o di moto, per ripararli dal sole.
Attualmente la loro presenza rimane solo nei mondiali di moto, mentre l’Endurance WEC le ha abolite nel 2015 proprio perché incarnanti una raffigurazione sessista della donna; nel 2018 è stata poi la volta della Formula 1, per volontà del gestore Liberty Media, soprattutto sulla scia del Me Too; in questo caso, c’è da dire, la decisione ha incontrato le proteste di piloti come Vettel, ex piloti come Niki Lauda, ma anche delle stesse ombrelline.
Perché la necessità di queste figure? Perché, lo abbiamo detto, culturalmente per qualcuno lo sport è ancora appannaggio quasi esclusivo solo degli uomini, e l’accoppiata bella donna – sport fa molto in termini di audience e di presenza del pubblico. Difficile superare un simile retaggio, ma come vediamo, qualcosa si muove.
È un altro punto su cui è molto importante focalizzarsi, soprattutto alla luce delle molte dichiarazioni di chi sostiene che le atlete transgender non dovrebbero gareggiare con la categoria di persone appartenenti al loro stesso genere percepito, ma con quelle appartenenti al loro genere di nascita. In sostanza, se sei una donna trans dovresti comunque gareggiare con gli uomini, e a pensarla così sono anche molte voci illustri dello sport, come la ex tennista Martina Navratilova, che ha parlato di “squilibri” in campo tra atlete nate biologicamente donne e atlete che hanno affrontato un percorso di transizione per diventarlo.
Sulla questione fa luce in maniera piuttosto netta questo articolo di The Vision:
È innegabile che un atleta di sesso maschile abbia una struttura muscolare sviluppata e potenziata, anche in base al tipo di allenamento, ma è anche vero che non tutti i maschi sono uguali, con la stessa corporatura o struttura ossea. Le terapie ormonali sostitutive non cambiano il corpo solamente sul piano morfologico, modificando i lineamenti e ridistribuendo i grassi, ma agiscono anche sulla densità ossea e sui muscoli. Gli inibitori di testosterone che fanno parte della terapia di una donna trans riducono la massa muscolare. Non è possibile calcolare un coefficiente di mutazione fisso né fare una previsione puntuale per tutte le persone che seguono una Tos, la terapia ormonale sostitutiva: ogni corpo reagisce in maniera diversa ai vari tipi di farmaci disponibili per la Tos.
Insomma, chi riduce tutto a una questione di accertata superiorità fisica sembra però non prendere in considerazione né che i mutamenti apportati dalla terapia ormonale abbiano effetti anche sulla muscolatura, né che per praticare uno sport occorre ben più di una semplice massa muscolare sviluppata. Spesso, inoltre, si lascia fuorviare da fake news e cattiva informazione, come successo nel caso di Gabrielle Ludwig, un’allenatrice di una squadra di basket femminile di college finita, suo malgrado, al centro di una colossale bufala, riportata, in Italia, anche dal parlamentare leghista Simone Pillon, che pur affermando la veridicità della notizia si lancia in una propagandistica news senza fondamento.
Gabrielle Ludwig è un signore sulla cinquantina, muscoloso e alto due metri, che si sente donna. Fin qui nessun...
Pubblicato da Simone Pillon su Giovedì 18 febbraio 2021
Pillon afferma infatti che Ludwig sia una giocatrice (chiamandola per altro signore, dimostrando la propria profonda ignoranza e poca empatia), per rimarcare la differenza di corporatura con le altre ragazze, ma in realtà è l’allenatrice cinquantenne della squadra.
Ma c’è anche una seconda questione, che riguarda l’accesso ai bagni e agli spogliatoi da parte delle donne trans, anche all’interno delle palestre, di cui avevamo discusso in questo articolo, e che rende necessario ripensare alla questione in una maniera più inclusiva, per evitare ogni forma di discriminazione.
Pur con tutte le difficoltà finora enunciate, le donne nello sport hanno compiuto, nel tempo, passi da gigante, e proprio a partire da Billie Jean King e dalla sua “impresa”, abbiamo raccolto in gallery alcuni dei momenti più importanti per l’affermazione femminile nello sport.
Nel 1973 Billie Jean King, la pioniera del tennis, che ha fondato la Women’s Tennis Association, ha battuto il collega Bobby Riggs, che si autodefiniva maschilista.
Tutti pensano che le donne dovrebbero essere eccitate quando riceviono le briciole. Io voglio che le donne abbiano anche la torta, la glassa e la ciliegia in cima.
Prima ancora di Billie Jean King c’è stata l’atleta americana Kathrine Switzer, che nel 1967, quando le donne non erano autorizzate a partecipare ufficialmente alla maratona di Boston, vi si iscrisse come “K.V. Switzer” per nascondere il suo sesso. Gli organizzatori, una volta scoperta la sua identità, cercarono di fermarla, inutilmente. La maratona femminile è entrata a far parte delle Olimpiadi nel 1984.
Nel 2007, dopo le pressioni di Venus Williams e di altre colleghe, Wimbledon ha annunciato che le tenniste avrebbero ricevuto un premio in denaro uguale a quello degli uomini.Williams aveva lanciato un appello all’organo supervisore di Wimbledon la notte prima di vincere il titolo nel 2005, rifiutato, e ha dovuto aspettare altri due anni per vedere esaudita la sua richiesta. Grazie a lei, il premio in denaro è di 1,4 milioni, proprio come quello maschile.
Nel marzo 2017, la squadra nazionale femminile di hockey degli USA ha annunciato che avrebbe boicottato il seguente campionato del mondo se la federazione nazionale non avesse aumentato i salari
È difficile credere che nel 2017, dobbiamo combattere così tanto solo per avere uno stipendio equo – disse all’epoca la capitana della squadra, Meghan Duggan – Vogliamo fare la cosa giusta, non solo per l’hockey ma per tutte le donne.
Ada Hegerberg, calciatrice norvegese di 23 anni e Pallone d’oro femminile, ha lasciato la sua nazionale nel 2017 in segno di protesta contro il mancato sostegno alle donne calciatrici.
Nel 2019 l’atleta americana ha conquistato il suo uo dodicesimo oro mondiale grazie al successo degli Stati Uniti nella 4×400 mista, staccando in questa speciale classifica nientemeno che Usain Bolt. Il tutto a soli dieci mesi dal parto.
C’è di più: come detto, grazie a lei Nike ha accettato di non tagliare più lo stipendio alle atlete che sponsorizza, durante la maternità.
La giovane pallavolista musulmana di 14 anni, matricola della Valor Collegiate Prep, in Tennessee, ha vinto la sua battaglia contro la National Federation of State High School Associations (NFHS), che non prevedeva nel proprio regolamento di poter giocare con lo hijab o con qualsiasi altro copricapo religioso. Dapprima il regolamento è stato cambiato solo nel Tennessee, poi anche negli altri stati, e presto potrebbe essere esteso anche ad altri sport, oltre alla pallavolo.
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