Gino Cecchettin e il rumore del cambiamento

Leggiamoci ogni giorno le parole di Gino Cecchettin. Diffondiamole, leggiamole nelle scuole, a casa, tra amici e amiche, portiamole nelle piazze e nelle stanze della politica. Facciamole sedimentare, facciamocele entrare nelle ossa e nel sangue, come si fa quando si assume del calcio o del ferro per andare a compensare valori che, abbiamo scoperto, essere sbagliati e pericolosi, anche nei loro aspetti apparentemente più innocui e di cui tutte e tutti, ogni giorno, siamo complici.

Ci sono le parole dopo il ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchettin.
Ci sono le parole del discorso pronunciato a conclusione del funerale ‘pubblico’ della figlia, nella basilica di Santa Giustina a Padova.
Ci sono quelle indirizzate a colleghi, clienti e fornitori nella lettera pubblicata su LinkedIn, in cui Gino Cecchettin ringrazia, comunica l’intenzione dei prendersi una pausa dal lavoro e apre a una riflessione che, in una società davvero civile e umana, non spetterebbe a lui fare, non ora almeno, nel tempo del lutto, ma alla quale non si sottrae: le dà voce e ne porta il peso.

Quest’uomo, Gino Cecchettin, sta rendendo il proprio abisso di dolore e rabbia generatore di cura e di educazione sentimentale e affettiva. Non può più salvare la figlia, e allora sta facendo in modo che il femminicidio di Giulia Cecchettin diventi grimaldello per scardinare il sistema patriarcale e salvare altre Giulia, nonché motore del cambiamento necessario.

Ho incontrato molte madri e padri di vittime di femminicidio, in questi anni:  Gigliola Bono, madre di Monia Del Pero, 19 anni; Giovanna Zizzo e Vera Squatrito, rispettivamente mamme di Laura Russo, uccisa a 11 anni, e Giordana Di Stefano, 20; Giovanni Lelli, papà di Nicole Lelli, 22 anni; Paola Alberti e Massimo Noli, genitori di Michela Noli, 31 anni; Assunta Bianco, sorella di Antonia Bianco, 43 anni.

Per ognuna di queste persone, fare in modo che la morte violenta della propria figlia, sorella o madre (come nel caso dell’orfana di Giordana Di Stefano), avvenuta sempre per mano di un uomo di famiglia, salvi altre donne ha a che fare con la necessità di dare, non dico un senso impossibile, ma valore alla vita depredata e interrotta della persona amata. Oltre a essere una forma di resistenza alla pazzia cui rischia di portarti un dolore indescrivibile, che è “fine pena mai” ed ergastolo, per i familiari delle vittime di femminicidio, senza possibilità di fuga, sconti, attenuanti e permessi premio.

Significa del resto anche riconoscere che la tempesta che ti ha travolto non è una tragedia che è capitata alla tua famiglia, ma il risultato di una violenza strisciante e sistemica che quotidianamente si annida nelle case, si insidia nelle relazioni apparentemente normali o addirittura felici di ragazze e donne.

Il femminicidio è la punta dell’iceberg della violenza di genere, che agisce indisturbata e soprattutto accettata in tutti gli ambienti in cui viviamo. E mentre il ministro Matteo Salvini e il generale Roberto Vannacci, neo promosso capo di Stato Maggiore del Comando delle forze operative terrestri dell’Esercito italiano, confondono giustizialismo e legittima difesa, il privato cittadino Gino Cecchettin scrive ai colleghi su LinkedIn:

Questo periodo di lutto e riflessione è e sarà un momento difficile, ma anche un’occasione per riflettere sull’importanza delle relazioni positive e del sostegno reciproco.

Invoca, cioè, la cura, il mettersi in discussione e un modo etico di essere e vivere in relazione con gli altri.

Facciamo rumore, continuiamo a fare rumore e a bruciare tutto, come ha chiesto Elena Cecchettin, con la rabbia a farci da forza motrice e la cura a farci da collante. È questa la rabbia e il rumore di cui abbiamo bisogno, e che nulla hanno a che vedere con la furia cieca di chi in questo momento – giudicando persino troppo tiepide le reazioni di questa famiglia – invoca pene di morte e leggi del taglione. Quest’ultima è la furia distruttiva propria al sistema patriarcale, che serve allo stesso per riproporre e radicare la sua violenza costitutiva. È la rabbia che schiuma in parole d’odio delle persone che “non hanno capito” e neppure vogliono capire, ma solo auto assolversi e proclamarsi diverse dal Turetta o dal criminale di turno, brandendo l’ascia dei giustizieri: dimostrando, così, di essere fatte della stessa pasta e, cosa più grave, di esserne fiere e non voler cambiare..

Non se ne esce facendo le sparate tipo “sbattiamolo in carcere e buttare via la chiave” o con i “fosse per me lo farei uscire dalla cella con i piedi davanti”. Non se ne esce auto assolvendosi perché “io le donne le ho sempre rispettate o non le ho mai neppure menate”: sono medaglie al valore miopi, vorrei dire ridicole, se non fosse per la posta in gioco, la disperazione e l’estrema stanchezza che ci portiamo dentro.

Leggiamoci ogni giorno le parole di Gino Cecchettin: quelle scritte ai suoi colleghi, queste lette al funerale della figlia.
Facciamole sedimentare, facciamocele entrare nelle ossa e nel sangue, come si fa quando si assume del calcio o del ferro per andare a compensare valori che, abbiamo scoperto, essere sbagliati e pericolosi, anche nei loro aspetti apparentemente più innocui e di cui tutte e tutti, ogni giorno, siamo complici.

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