Perché "Le nuove regole dell'amore" portate da Bussola sul palco di Sanremo sono un problema

Il monologo sulla violenza di genere a Sanremo viene affidato ai ragazzi di Mare Fuori e scritto da Matteo Bussola. Ancora una volta, è un uomo a parlare di un argomento che tocca soprattutto le donne.

Sanremo diventa anche spesso e volentieri l’occasione per lanciare messaggi più profondi sui temi dell’attualità; e se la prima puntata ha visto molti riferimenti alla guerra fra Israele e Palestina e salire sul palco Daniela Di Maggio, madre di Giovanbattista Cutolo ucciso a soli 24 anni per un parcheggio, il secondo appuntamento con la kermesse musicale ha riservato uno spazio per parlare di un altro tema purtroppo sempre attuale, quello della violenza di genere.

Lo ha fatto attraverso il monologo scritto da Matteo Bussola e interpretato dagli attori di Mare Fuori, saliti sul palco per presentare la quarta stagione della serie.

“Ascolta, è la prima parola- esordisce Giovanna Sannino, che nella fiction è Carmela – Una donna che ti parla, si fida di te. Non trattarla mai con sufficienza o con fastidio neanche quando ti sembra che si stia lamentando di qualcosa, perché c’è differenza tra lamentarsi di te e lamentarsi con te”.

Prosegue Matteo Paolillo: “Accogli è la seconda parola. Nessuno si merita la violenza di dover aderire ad aspettative altrui, di essere considerato troppo o troppo poco, non ancora o non più. Facciamo invece sempre sentire chi amiamo accolto, esattamente per quello che è, perché tutti noi abbiamo il diritto non a sentirci amati nonostante, ma ad essere amati proprio perché”.

È il turno di Yeva Sai: “Accetta è la terza. Non sempre l’amore dura e dopo un percorso condiviso può succedere di dover spezzare un cuore, pur di non spezzare noi stessi, perché siamo al mondo per fiorire, non per appassire all’ombra di rapporti in cui non ci riconosciamo più. Ecco perché amare a volte può voler dire accettare che le persone siano felici anche senza di te”.

Continua Domenico Cuomo: “Impara è la quarta. L’amore è un lavoro e impararlo è forse la cosa più importante per la quale siamo qui. Ci riusciremo solo con un’applicazione quotidiana, tu insegni le tue parole e lei insegna le tue, fino a quando non inventerete le vostre”.

Antonio D’Aquino: “Verità è la quinta. Abbandoniamo gli stereotipi del vero uomo e della vera donna, per ambire a essere uomini veri e donne vere. Gli uomini veri e le donne vere vivono e amano nel mondo, accolgono le proprie diversità e quelle degli altri come risorse, sapendo che sono proprio quelle a renderli liberi”.

Poi tocca a Francesco Panarella: «Accanto è la sesta. Una coppia non si fonda sull’attribuire ruoli ma sul condividerli, non sul tracciare confini ma sullo starsi accanto. A volte perfino sull’attendersi, accettando anche momenti di silenzio in cui ti pare non stia succedendo niente. Ma quell’attesa è solo ciò che prepara il tuo meglio e quel silenzio è solo ciò che testimonia il tuo amore”.

“No è la settima – ha invece spiegato Maria Esposito – È una parola dura ma che dobbiamo riuscire a pronunciare, e che gli altri devono essere pronti a ricevere. No è la parola che stabilisce il perimetro della nostra volontà, e rende chiaro che l’amore non deve c’entrare mai con il possesso. Per questo a volte no è la più alta dichiarazione d’amore che si possa fare”.

Ha concluso Massimiliano Caiazzo: “Insieme è l’ottava. Una parola che può sembrare fuori moda sopratutto oggi in cui uomini e donne si vivono come avversari. Per questo che questa parola è la più preziosa, quella su cui investire per il futuro. Ciò che conta è che ricominciamo a guardare gli uni negli occhi degli altri. Quello che sceglieremo di vedere dipenderà solo da noi”.

Un discorso sicuramente molto emozionale, che tuttavia ha lasciato perplesso più d’uno, per svariate ragioni, ben sintetizzate dall’attivista Carlotta Vagnoli in un suo post.

Al di là del fatto di poter trovare sconcertante il fatto di aver usato un tema così delicato e problematico sostanzialmente per pubblicizzare l’uscita della nuova stagione della fiction, non è ben chiaro, ad esempio, perché, ancora una volta, il compito di parlare di violenza di genere, le cui vittime sono soprattutto le donne, sia spettato a un uomo, che l’ha fatto romanticizzando certi aspetti di qualcosa che, invece, è una narrazione terribile e drammatica.

Un perfetto esempio di mansplaining in cui – di nuovo – è un uomo a doverci spiegare come comportarci, peraltro in una maniera che, in alcuni passaggi, pur se in maniera più o meno implicita, responsabilizza anche le donne stesse, come scrive Vagnoli.

‘La responsabilità è nostra’ è una supercazzola retorica quanto pericolosa, perché quel ‘nostra’, in quel contesto, potrebbe far sottintendere che quella della violenza di genere possa essere anche responsabilità femminile.

Bussola, scrive ancora Carlotta Vagnoli, ha scritto un ottimo monologo sull’amore, che tuttavia è l’opposto rispetto allo scrivere un testo sulla violenza di genere, tanto che sono omessi tutti quelli che sono gli elementi che di questa realtà fanno parte: le dinamiche della mascolinità tossica, il male privilege, il concetto di patriarcato e di cultura dello stupro. Il tutto mentre l’Europa è ferma sulla legge per criminalizzare la violenza sessuale, proprio per la difficoltà di trovare una definizione unanime di stupro, e mentre la convenzione di Istanbul, sottoscritta dal nostro Paese nel 2012, viene costantemente ignorata e le sue linee guida non rispettate.

Affidare a un uomo la narrazione di un problema di cui evidentemente non è parte, di cui non conosce a fondo le dinamiche e di cui sembra ignorare, soprattutto, la sistematicità, trattandolo alla stregua di un argomento di costume e calcando la mano su slogan che sanno tanto di pinkwashing, “No è no”, come se questo fosse davvero sufficiente a “lavarsi la coscienza” e pensare di aver assolto il proprio compito, significa perpetuare ancora un determinato tipo di cultura, in cui sono gli uomini a occuparsi di quegli argomenti in cui, invece, dovrebbero avere voce le donne, che invece, ancora una volta, si devono accontentare di banali rassicurazioni e di promesse dal sapore paternalistico.

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