A distanza di nove anni dal ritrovamento del suo corpo senza vita, Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, ha testimoniato in aula nel processo per il sequestro, le torture e infine l’omicidio del figlio, dottorando dell’Università d Cambridge rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere il 3 febbraio.

Sotto processo per la sua morte ci sono il generale Tariq Sabir e gli ufficiali Athar Kamal, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdel Sharif, tutti 007 del governo egiziano, nessuno presente nell’aula bunker a Rebibbia.

“Avevamo dentro di noi l’illusione che non fosse Giulio – ha ricordato Deffendi – Quando ho dovuto riconoscere il corpo di Giulio ho potuto vedere solo il suo viso: ho visto la brutalità, la bestialità, sul corpo di nostro figlio. Era coperto da un telo e chiesi di poter vedere almeno i piedi ma una suora mi disse ‘suo figlio è un martire’. Lì capii che era stato torturato.

Ricordo il profilo facciale di Giulio, la famosa punta del naso. Era Giulio ma non era Giulio. ‘Ma cosa ti hanno fatto’ dissi a voce bassa – prosegue la madre di Regeni – In quel momento capii la bestialità di tutto quello che era accaduto. Contrasto fra la brutalità e l’umanità di chi ce lo aveva messo lì per farcelo vedere…”.

Nell’aula, rispondendo alle domande del pm Sergio Colaiocco, ricorda il momento in cui ha ricevuto la telefonata che l’ha informata della moglie di suo figlio: “Ricordo la telefonata dal Cairo a mia figlia Irene: ‘Giulio è morto’. Eravamo nel suo appartamento. Abbiamo chiamato lìamica di mio figlio, Noura. ‘Giulio non c’è più’, le abbiamo detto. Poi il coinquilino ci ha fatto le condoglianze. Ci ha fatto un tè che ora penso ci sia rimasto sullo stomaco”.

Solo in seguito lei e il marito, Claudio Regeni, seppero della tortura: “L’indomani mattina la console dice di andare in ambasciata velocemente. Facciamo le valigie velocemente, mi sono ricordata che non avevamo preso le cose del bagno di Giulio. Un pensiero stupido, come ripenso ai dettagli. Siamo andati in ambasciata e poi alla procura perché capivamo che l’ambasciata aveva fretta di recuperare Giulio. Andiamo alla procura del Cairo con un traduttore. Ricordo che l’ambasciatore mi faceva segno di no con il capo a significare che non dovevo vederlo. Mi sentivo vigliacca però, pensavo che dovevo vederlo. Ci siamo lasciati convincere a non farcelo vedere e siamo andati all’ospedale italiano dove accarezzammo Giulio. Chiesi: ‘Mostratemi almeno i piedi'”.

Davanti ai giudici della prima corte d’assise di Roma Deffendi ha parlato anche dell’ultima volta in cui ha visto il figlio: “L’ultima volta che lo abbiamo visto, tramite Skype, è stato il 24 gennaio 2016. Ci disse del 25 gennaio, di cosa significasse al Cairo quella data. Gli dissi ‘Mi raccomando stai a casa'”.

Il 25 gennaio 2011 scoppiò infatti la cosidetta Rivoluzione egiziana, con venticinquemila manifestanti, perlopiù giovani, scesi nelle strade della città dopo alcuni episodi accaduti nei giorni precedenti in cui tre persone si diedero fuoco per protesta.

“Lui ci spiegò di aver fatto la spesa per più giorni, ci rassicurò – prosegue Paola Deffendi, fino alla notizia della scomparsa, il 27 dello stesso mese – Mio marito mi ha chiamato con una voce mai sentita. A casa mi disse che Giulio era scomparso. Quando sentii la console chiesi perché non ci avessero avvisato prima”.

La madre del ricercatore ha anche aggiunto di aver ricevuto una lettera firmata da un gruppo di madri egiziane, che le dicevano che era stata fortunata a poter almeno rivedere il figlio.

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