Mamma, te ne prego, fa sapere al mondo intero i crimini che queste persone hanno commesso“.

Queste sono le parole che la madre di Choi Suk-hyeon, atleta di triatholon sudocoreana, ha letto nell’ultimo messaggio che la figlia le ha inviato prima di togliersi la vita, a soli 22 anni.

Risale a una manciata di minuti dopo la mezzanotte del 26 giugno, e segue quello inviato invece a un compagno di squadra, a cui Choi Suk-hyeon chiedeva di prendersi cura del suo cane. Dopo, la giovane e promettente atleta si è uccisa, e per molti, fra genitori e amici della squadra, quel “loro” era perfettamente associato a nomi e cognomi: quelli di allenatore, medico e due compagni del suo team, colpevoli, secondo la ragazza, di aver abusato di lei.

Non siamo, purtroppo, di fronte a una storia nuova; basti pensare alla maxi condanna inflitta a Larry Nassar, ex medico della squadra di ginnastica artistica USA accusato di abusi sessuali da 150 donne, fra cui la campionessa olimpica Simone Biles, o alle denunce della ex stella del pattinaggio francese, Sarah Abitbol, stuprata dal suo allenatore a 15 anni.

Anche Choi Suk-hyeon sarebbe stata vittima di pesanti aggressioni, non di natura sessuale, e a provarlo ci sarebbe una serie di registrazioni e un diario che oggi, dopo la sua morte e quell’ultima richiesta scritta nell’SMS alla madre, sono stati resi pubblici dalla famiglia.

Le registrazioni choc e il silenzio delle autorità

Secondo quanto ricostruito dal New York Times, che ha seguito gli sviluppi della vicenda, in una registrazione del marzo 2019 si sentirebbe nitidamente il medico della squadra, Ahn Ju-hyeon, dire “Blocca le mascelle! Vieni qui!”, prima di alcuni colpi molto forti. La ragazza avrebbe inoltre tentato più volte di denunciare gli abusi alle autorità, esponendo il suo caso anche al National Human Rights Commission, alla Korea Triathlon Federation, al Korean Sport and Olympic Committee e alla stessa polizia di Gyeongju City, dove ha sede la squadra, senza però ricevere sostegno e, di conseguenza, aiuto.

Choi, nelle denunce esaminate dal Times, avrebbe riferito di essere stata schiaffeggiata, presa a pugni e calci dal signor Ahn, al punto di fratturarsi una costola, e di non aver chiesto cure mediche per il timore di ritorsioni. Allo stesso tempo, dopo le denunce le autorità, secondo il padre, Choi Young-hee, avrebbero detto alla ragazza che Ahn aveva negato ogni accusa e non c’erano prove sufficienti per proseguire con un’indagine, nonostante i file consegnati.

Solo dopo la morte, e la pubblicazione dei documenti finora tenuti segreti, nella giornata di lunedì 6 luglio la Korea Triathlon Federation ha sospeso l’allenatore, Kim Gyu-bong, e il capitano della squadra, Jang Yun-jeong, radiandoli a vita dall’attività sportiva, mentre i pubblici ministeri stanno preparando l’impianto accusatorio per i due, e per Ahn, sulla cui reputazione emergono ora retroscena incredibili, come il fatto che, secondo alcune fonti, non avrebbe alcuna laurea in medicina.

Non è il primo caso per la Corea

A dispetto di un’attenzione crescente verso lo sport, e di una cura minuziosa nella preparazione dei propri atleti, quello di Choi Suk-hyeon non è il primo scandalo che travolge il mondo sportivo coreano: nel 2019 Shim Suk-hee, due volte medaglia d’oro olimpica nel pattinaggio di velocità su pista corta, ha accusato il suo ex allenatore di averla violentata ripetutamente da quando aveva 17 anni: l’uomo, Cho Jae-Beom, è stato condannato a 10 mesi di prigione per aver abusato di quattro atlete, fra cui Shim, tra il 2011 e i preparativi per le Olimpiadi invernali del 2018 tenutosi a Pyeongchang, Corea del Sud, ed è tuttora impegnato nel processo a suo carico.

Vorrei essere morta

Lo scriveva Choi a luglio.

Vorrei essere investita da un’auto mentre cammino per strada o essere pugnalata a morte da un ladro mentre dormo.

Choi diceva anche di pensare spesso se i suoi aguzzini avessero ragione di chiamarla “pazza” e “paranoica”. Bambina prodigio nel nuoto, era stata scelta per entrare a far parte della squadra nazionale junior di triathlon nel 2015, vincendo tre medaglie d’oro per poi unirsi nel 2017, dopo il diploma, al team con base a Gyeongju. Proprio in quel periodo sono però iniziati gli episodi di bullismo e nonnismo, soprattutto da parte di Jang, atleta di punta della squadra e campionessa nazionale.

Mi ha colpito alla testa, mi ha spinto e preso a pugni e mi ha ripetutamente insultata chiamandomi sessualmente promiscua. Una volta l’allenatore della squadra mi ha costretta a inginocchiarmi di fronte a lei.

Sono alcune delle dichiarazioni di Choi.

Fra gli altri episodi raccontati dall’atleta, ci sono le botte ricevute dal medico per aver mangiato una pesca nonostante l’ordine di perdere peso, o l’obbligo di digiunare per tre giorni imposto dall’allenatore Kim. Tutto è andato avanti fino a quando, sul finire del 2018, Choi ha lasciato Gyeongju per un’altra squadra, iniziando a presentare denunce contro i suoi ex compagni di squadra, allenatore e medico.

Dopo il suicidio della ragazza diversi ex compagni di squadra si sono fatti avanti per confermare le sue accuse e condividere storie sui loro stessi abusi, indicando la squadra come “una dittatura” governata dall’allenatore, il signor Kim, e dalla sua atleta di punta, Jang. Le donne hanno dichiarato di essere state percosse anche dieci giorni al mese, e che gli abusi verbali erano comuni, aggiungendo che Ahn fosse uso a toccare seno e cosce delle atlete spacciandole per “terapie”.

Siamo entrati a far parte del team Gyeongju appena usciti dal liceo. Sebbene temessimo l’oppressione e la violenza dell’allenatore e del capitano, tutti hanno messo a tacere la questione  – ha dichiarato una delle atlete in una conferenza stampa che si è tenuta lunedì 6 – Abbiamo pensato che questa fosse la vita che dovevamo sopportare come atleti.

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