Anche la piccola Aurora non ce l’ha fatta.

È lei l’ultima vittima della folle strage di Carignano, alle porte di Torino, dove all’alba di lunedì si è consumata la più assurda delle tragedie: a uccidere la piccola, colpita alla testa da un proiettile, proprio il padre, Alberto Accastello, che aveva già sparato e ucciso la moglie, Barbara Gargano, il gemellino di Aurora, Alessandro, e non aveva risparmiato neppure il cane di famiglia, prima di rivolgere l’arma contro se stesso.

I medici nutrivano poche speranze sulla sorte della piccola, arrivata in condizioni disperate e in coma al Regina Margherita di Torino, fino a quando, alle 21:30 dell’11 novembre, dopo due giorni strazianti, il suo cuoricino ha smesso definitivamente di battere.

Molte parole si sono spese su questa tragedia, e il senso generale di quanto si è letto o sentito è quello che lascia l’amaro in bocca; non solo, ovviamente, di fronte alla presa di consapevolezza di un dramma umano così grande,  ma anche rispetto al modo in cui molti hanno scelto di commentare la notizia.

Ne abbiamo ampiamente discusso in questo articolo, chiedendoci per quale motivo sia tanto difficile dare ai fatti il giusto nome: nel caso di Alberto Accastello e della strage da lui compiuta, nello specifico, parliamo di femminicidio e di infanticidio.

Eppure, come abbiamo visto essere prassi normale anche in altre occasioni, è come se ogni volta si cercasse non solo di sminuire il peso, enorme, dell’atto compiuto all’assassino, rendendogli pubblicamente il merito per la vita impeccabile vissuta fino a quel momento – “Era una brava persona, era un lavoratore” – ma anche di “redistribuire” le colpe, con allusioni che, più o meno consapevolmente, spingono a ritenere sensato trovare giustificazioni nel gesto.

Nella fattispecie, Barbara aveva un altro; Barbara voleva andarsene; Barbara non apprezzava quanto Alberto si sacrificasse per la famiglia e per lei.

Oggi che anche Aurora è morta, torniamo a chiederci: qualcuno è davvero convinto che la colpa di questa morte ricada anche sulle spalle di Barbara Gargano?

C’è ancora qualcuno che vuole davvero indagare, scandagliare con bigotto voyeurismo nella vita personale di Barbara, nelle sue scelte, per giudicarle e stabilire arbitrariamente, senza conoscere i dettagli, le storie, le persone, che il semplice fatto di essere sposata a un uomo apparentemente perfetto – agli occhi dei vicini, dei conoscenti, di chi viveva solo la vita di facciata di Accastello e della sua famiglia –  sia un motivo sufficiente per vedersi affibbiata l’etichetta dell'”ingrata” e, di conseguenza, per essere in un certo qual modo vista come corresponsabile della propria stessa morte e di quella dei figli?

Ha davvero senso appellarsi a cosa sembrava agli occhi degli altri Alberto Accastello, o tirare in ballo la pretesa – dagli altri – sacralità del matrimonio, quando si potrebbe, più semplicemente e onestamente, limitarsi a dire che quello di Barbara Gargano è stato un femminicidio – perché Barbara è morta in quanto donna che aveva deciso di separarsi, e quindi di non essere più “proprietà” di suo marito – e quello di Aurora e Alessandro, un infanticidio compiuto da chi li aveva messi al mondo?

Si dovrebbe davvero cominciare a ponderare con cura le parole che si usano, specie quando ci si approccia a eventi del genere; in caso contrario, forse, il silenzio è sempre la strada migliore, non fosse altro che per il rispetto che si deve a ciascuna di queste vittime.

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