“Le parole sono importanti”, ha ragione Nanni Moretti.
Sono “ciccia”, contrariamente a quanto ritiene Ambra Angiolini, che senza aver a ogni evidenza mai approfondito la questione del linguaggio sessista, in occasione del Concertone del Primo Maggio se n’è uscita con una filippica sbagliata nei presupposti; e una proposta che, di conseguenza, non può che essere insensata:

Avvocata, ingegnera, architetta. Tutte queste vocali in fondo alle parole sono, saranno armi di distrazione di massa?
Ci fanno perdere di vista i fatti e i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione.
Non lo diceva già la Costituzione nel 1949 che la donna doveva avere gli stessi diritti dell’uomo nell’articolo 36?.
Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20% di retribuzione.
Pagate e mettete le donne in condizione di lavorare. Uguale significare essere uguale, e finisce con la e.
[…]Come dice mia madre torniamo alla ciccia, ma non quella che vedete sulle nostre cosce.

Il benaltrismo – l’idea che ci sia sempre un altro problema ben più importante – è sport diffuso in Italia più del calcio: serve a sminuire o delegittimare le istanze e le lotte che a) non ci riguardano, b) non condividiamo, c) non abbiamo capito e, per questo, non ci sembrano prioritarie.

L’ignoranza in senso letterale, cioè il fatto di non conoscere (e non aver studiato) una cosa, è fisiologica rispetto all’assunto che non possiamo sapere tutto.
Diventa però un peccato – quanto meno d’arroganza – quando ci si improvvisa mentori o portavoce di una causa che non si conosce, o si conosce superficialmente, raffazzonando (o prestando la propria voce alla raffazzonatura altrui di) qualche dato decontestualizzato e un’opinione priva di competenza.

In quel caso, finisce che persino una donna e professionista intelligente come Ambra Angiolini butti in populismo e semplificazione anche il tema, tutt’altro che banale, del sessismo nella lingua italiana – e quindi anche nelle professioni -, senza aver compreso quali ripercussioni concrete esso abbia nel quotidiano e sulle percentuali lanciate nel discorso come pietre dello scandalo su cui è importante concentrarsi, invece di farsi distrarre dalle vocali…

Che peccato. Che occasione perduta: per affrontare il tema su un palco tanto importante; in alternativa, per un buon silenzio.

Il sessismo nelle parole che diciamo (o non diciamo) rappresenta il sessismo della realtà in cui viviamo

Eppure un’attrice dovrebbe avere ben chiaro quanto le parole, e quindi anche le vocali in fondo ad esse, sono importanti.
È il linguaggio, infatti, a definire il modo in cui pensiamo e, quindi, il mondo in cui viviamo. Come dice il filosofo Galimberti:

[…] se hai poche parole in bocca, non hai tanti pensieri in testa. Perché i pensieri sono proporzionati alle parole che hai. Non posso pensare una cosa di cui non ho la parola. Se ho poche parole, penso poco.

Quando sono chiamata a parlare di linguaggio e di giornalismo inclusivo offro sempre questa riflessione:

“Ciò di cui non scriviamo non esiste.
Ciò di cui scriviamo esiste nel modo in cui lo rappresentiamo e quindi lo pensiamo.
Se lo scriviamo/ rappresentiamo male consegniamo quella realtà al pregiudizio”.

Lo stesso vale per la parola detta.

Il linguaggio che plasma il sessismo sul lavoro

Nel linguaggio applicato alle professioni alcune pratiche considerate normali, o addirittura difese in nome del “si è sempre detto così”, va da sé, non sono innocue e, seppure inconsciamente, delegittimano, infantilizzano e invalidano le donne:

  • Il tu d’ordinanza e/o il nome (senza cognome)

È il caso di quando si chiama una professionista per nome o senza usare il titolo professionale o dandole del tu, magari perché è giovane o perché appare tale; o solo perché donna in un consesso di maschi. Si noti  infatti che la cosa succede spesso nei contesti in cui gli uomini sono nominati rigorosamente con il cognome, preceduto o meno da professor o dottor o ministro, etc.

  • La maternalizzazione delle professioniste

Abbiamo poi un enorme problema culturale che si riflette sul linguaggio – giornalistico in primis, ma non solo – che consiste nel maternalizzare le professioniste, o contestualizzarle in relazione alla loro fisicità e a standard sessualizzati.
Cito alcuni titoli, realmente pubblicati sui quotidiani nazionali: “Mamma e nuotatrice: chi è Andrea Ghez, Premio Nobel per la fisica”, “Tiro con l’arco: il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico”; ma pensiamo del resto anche a formule come “la bella avvocata” (di un uomo non lo diremmo mai) o soprannomi come AstroMamma per Samantha Cristoforetti…

  • I femminili professionali

Il dibattito sui femminili professionali, in una società davvero paritaria, non dovrebbe neppure porsi.

La nostra lingua ha regole precise per la formazione del femminile: ministro diventa ministra, avvocato è avvocata, presidente resta presidente come pediatra, che cambiano gli articoli (la presidente, la pediatra).
Seguendo la logica di chi pretende che alcuni femminili non esistano perché non attestati in precedenza (quasi mai vero!), dovremmo allora chiamare ostetrica anche l’ostetrico, che prima non c’era?
È una provocazione, ovvio, per dire che chi sceglie di non usare i femminili professionali dicendo che “l’italiano non li prevede” o che “le professioni sono neutre” è pur libera o libero di farlo, ma a) non conosce l’italiano, b) nega l’importanza delle parole.

I femminili professionali che oggi ci suonano ‘strani’ raccontano semmai l’esclusione delle donne dal mondo del lavoro.
La giudice che oggi sceglie di farsi chiamare il giudice, per esempio, forse dimentica, o no sa, che fino al 1963 le donne in Italia erano escluse dalla magistratura, per la presunta natura femminile volubile e uterina.
E allora, a maggior ragione, dovremmo usare i femminili professionali, con orgoglio.

  • Il linguaggio che invisibilizza le donne

Ieri una collega di Angiolini, l’attrice Valentina Melis a breve in scena con l’adattamento teatrale del testo Stai zitta di Michela Murgia, ha ricordato questo passaggio tratto dal libro della scrittrice sarda:

Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica.

Ciò che non nomino non esiste.
E invece noi professioniste esistiamo, non siamo un’eccezione.
Un ambiente professionale paritario si costruisce partendo dalle parole che lo nominano e lo plasmano.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!