"Era mio figlio. E voleva uccidermi" Monica Marchioni, sopravvissuta alla furia di Alessandro Leon Asoli

3 anni fa sopravvisse alla furia del figlio, che avvelenò il suo partner con delle penne al salmone e tentò di ucciderla. In un libro ha raccontato il suo percorso di vita dopo quella terribile notte.

Era la sera del 15 aprile 2021 quando Loreno “Lollo” Grimandi morì dopo aver mangiato un piatto di penne al salmone cui il figlio della compagna, Alessandro Leon Asoli, aveva aggiunto un potente veleno, il nitrito di sodio. L’uomo morì pochi minuti dopo aver ingurgitato l’ultima forchettata di pasta, mentre Monica Marchioni, la sua partner e madre del ragazzo, riuscì a salvarsi perché aveva mal di stomaco e pensava che lo strano sapore di quelle penne fosse dovuto proprio al suo malessere.

Marchioni, quella sera, si salvò dalla furia omicida del suo ragazzo, all’epoca appena diciannovenne, che non essendo riuscito a ucciderla con il piatto di pasta avvelenato tentò prima di farle bere il veleno, e poi di soffocarla; oggi la donna ricorda tutto ciò che è accaduto in quella terribile sera nel libro Era mio figlio. E voleva uccidermi, scritto a quattro mani con la criminologa Cristina Battista, edito da Edizioni Minerva.

Era mio figlio. E voleva uccidermi

Era mio figlio. E voleva uccidermi

Monica Marchioni, in collaborazione con la criminologa Cristina Battista, ripercorre la terribile sera in cui il figlio Alessandro Asoli ha tentato di ucciderla e ha ucciso il ssuo compagno con un piatto di penne al salmone avvelenate.
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“Non era furente mentre cercava di obbligarmi a bere un bicchiere pieno di veleno  – ha raccontato a Vanity Fair Monica Marchioni – Non era fuori controllo quando tentava di soffocarmi con un cuscino, o quando mi prendeva a pugni in faccia. Era calmo. E lucido. Aveva gli occhi lunghi e luminosi, e un sorriso freddo che non dimenticherò mai. Non urlava, faceva ogni cosa in silenzio. Salvo poi romperlo, il silenzio, per chiedermi quasi ironico: ‘Come cazzo è che non muori?'”.

Nel 2023 Asoli è stato condannato a 30 anni di carcere, una condanna verso cui i legali del ragazzo non hanno voluto fare ricorso, per un suo percorso di “resipiscenza” intrapreso in carcere, che Marchioni commentò dicendo “Sono contenta della sua scelta, finalmente è quella giusta. Affrontare un altro grado di giudizio sarebbe stato ancora doloroso per me, oltre che un esborso di tempo ed energie inutili. Mi fa piacere che possa intraprendere un percorso di ravvedimento. Sarà vero? Non so, non posso dirlo ora. Per adesso non ho ricevuto alcun cenno da lui, si vedrà”.

Del resto, proprio il “non sapere” e il non conoscere a fondo i propri figli è il fulcro del libro scritto ora con Battista, che fin dall’inizio si occupò del caso.

Monica Marchioni aveva per il suo “Chicco” un amore viscerale, e quasi esclusivo, dopo la separazione dal padre biologico del ragazzo, quando il bimbo aveva appena pochi mesi. Da lì è seguito un periodo di gestione condivisa con il padre e i nonni materni, per aiutare la donna a superare un principio di depressione post-partum, da cui è uscita molto bene, permettendole di occuparsi a tempo pieno di quel figlio tanto amato.

“Gli amici lo prendevano pure un po’ in giro perché non poteva fare a meno di confidarsi con me. Mi aveva confessato pure le poche volte che aveva provato a far uso di droga”.

La droga, del resto, è sempre stata una delle prime ipotesi per tentare di “spiegare” il comportamento di quella sera, ma Monica Marchioni respinge con forza l’idea: “Mi aveva detto di aver provato, ma l’esperienza non gli era piaciuta: sentiva di perdere il controllo, lui invece voleva essere sempre lucido. Infatti quella notte era assolutamente presente a se stesso. L’omicidio era pianificato da tempo: per settimane si era documentato su Internet circa gli effetti del nitrito di sodio”.

La spiegazione, se mai possa davvero essercene una, per la madre è da ricercare altrove: “Lui è sempre stato attratto da chi aveva di più. Era affascinato dall’idea dei soldi facili. I social, sa… Ultimamente i nostri più frequenti litigi giravano attorno a questo: finite le superiori, non aveva voglia né di lavorare né di proseguire gli studi”.

Era arrivato a dirmi che non provava più piacere a fare niente. Era in cura da uno psichiatra per un’accentuata ipocondria, gli avevano prescritto una dose minima di un antidepressivo, ma manco quello prendeva. Negli ultimi mesi, ogni tanto mi provocava: ‘Penso proprio che mi suiciderò. Ti avviso per tempo, così ti prepari’. Lo diceva con aria strafottente. Al mio sgomento specificava: ‘L’unica cosa che mi farebbe cambiare idea sarebbe che ora qualcuno bussasse alla porta e annunciasse che ho ereditato una bella somma. A quel punto non mi suiciderei più'”.

Io mi spaventavo. Ero arrivata anche a chiudermi a chiave in camera la sera perché quello che stava diventando mi faceva paura. Ma tutti attorno, Lollo incluso, mi dicevano di non dare peso alle sue minacce di suicidio o agli altri repentini cambi di atteggiamento: ‘È un’adolescenza protratta’, cercavano di rassicurarmi. Purtroppo sbagliavano.

Non è stato facile, sopravvivere al ricordo di quella notte, e Monica Marchioni ammette di aver pensato, e tentato il suicidio, più volte; gettandosi sotto un treno alla stazione di Bologna, o affogandosi in mare, dopo aver legato le sue “bimbe”, le sue cagnoline, a un palo, e aver avvertito una cara amica per dirle dove trovarle. Entrambe le volte è stata la telefonata alla psicoterapeuta Valeria a salvarla: “Quando vedo il suo nome sul telefono, è più forte di me, non riesco a non rispondere. E lei sa sempre quali parole usare per salvarmi”.

Ma per questa donna anche liberarsi del senso di colpa è stato fondamentale: “All’inizio mi sono incolpata di tutto – scrive nel libro – Cosa avevo sbagliato nel crescerlo? Cosa non avevo visto di mio figlio? Perché non ero riuscita a liberarmi prima da quella lotta estenuante, in tempo per salvare Lollo?”.

Quella sera, infatti, dopo aver avvelenato il compagno di mamma, Alessandro Leon Asoli ha finto una crisi di panico, che ha indotto la madre a seguirlo in camera per stargli vicino: “A un certo punto ho sentito dei rantoli in sala e sono uscita dalla stanza di Alessandro Leon. Lollo era steso sul divano, con la faccia rivolta all’indietro. Bianca. Non vedevo bene, mi stava entrando in circolo il veleno della pasta, e mi annebbiava, però capivo. Ho cacciato un urlo che veniva dal profondo delle viscere. Un urlo di terrore. Dietro di me ho sentito ‘tac’, ‘tac’: mio figlio stava indossando i guanti di lattice. Un attimo e mi ha tappato il naso, cercando di farmi bere a forza un bicchiere pieno di altro veleno. Poi la lotta è proseguita: botte, soffocamenti. Voleva finirmi, ma io non volevo crederci. Continuavo a ripetergli: ‘Chicco dai, ora basta scherzare, fai male alla mamma'”.

Da quel giorno ha smesso di chiamarlo “Chicco”, si rivolge a lui solo usando il nome completo o addirittura il termine “ragazzo”. Ricorda i suoi occhi di quella sera, che “non erano umani: avevano qualcosa di demoniaco. Sono convinta che la nostra sia stata una lotta tra il bene e il male. E che io sia salva per un motivo: qualcuno lassù ha voluto assegnarmi una missione, forse proprio quella di aiutare altre famiglie che hanno visto l’inferno. Ecco perché il libro. Per dire a quelli come me: non siete soli”.

I proventi del libro saranno devoluti a due associazioni che si occupano di animali, perché “degli umani non mi fido più”. Ha smesso di mangiare cibi di cui non conosce la provenienza, e solo da poco ha ricominciato a uscire di casa da sola: “Mi venivano gli attacchi di panico. In ogni ragazzo vedevo mio figlio e pensavo che volesse uccidermi. Oggi è diverso: ogni ragazzo che incontro lo vorrei abbracciare perché, quando torno a casa, io da abbracciare non ho più nessuno”.

Il perdono non so che cosa sia – aggiunge – So che oggi non lo odio Alessandro Leon, anzi prego anche per lui: che in carcere non lo picchino, che non lo violentino. La mia psicoterapeuta preferisce aspettare, ma io sarei pronta a incontrarlo: credo che lui abbia qualcosa da dirmi e io voglio la verità.

Nel frattempo, dopo averla incolpata dell’omicidio di Grimandi prima di confessare, ha cominciato a scriverle lettere: “Le prime sono abbastanza senza senso. L’ultima no, l’ultima me l’ha scritta Chicco. Ecco, io questo vorrei sapere: se, da qualche parte, nei suoi occhi riuscirò ancora a vedere il mio bambino”.

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