I Paesi Bassi hanno previsto un risarcimento nei confronti delle persone transgender che negli anni tra il 1985 e il 2014 si sono dovute sottoporre a un processo di sterilizzazione per ottenere la modifica di genere sui documenti. Durante questi anni, infatti, per poter ottenere il riconoscimento legale della nuova identità era obbligatorio sottoporsi al trattamento ormonale o all’intervento chirurgico.

Il governo neerlandese attualmente prevede un risarcimento pari a 5mila euro per ogni persona che in passato è stata forzata alla sterilizzazione, seguendo l’esempio della Svezia, che ha attuato il provvedimento nel 2018. In quel caso la cifra era superiore: 225mila corone, pari all’incirca a 22mila euro. Il paese scandinavo aveva infatti introdotto nel 1972 la possibilità di rettificare il proprio sesso anagrafico, adeguando i documenti personali, tra cui carta di identità, tessera sanitaria e passaporto, ma solo in seguito al processo di sterilizzazione.

Sander Dekker, ministro alla protezione giuridica del governo neerlandese, così commenta l’importante decisione:

Al giorno d’oggi una simile violazione dell’integrità fisica non è più neanche immaginabile. È importante rendersi conto della sofferenza che queste norme hanno portato alle persone transgender e dobbiamo offrire le nostre scuse e i giusti risarcimenti per quanto accaduto.

Un risultato storico, come sostiene anche Willemijn van Kempen, la donna transgender che ha avviato la campagna per i risarcimenti, ma che non può cancellare anni di violenze subite, come dichiara la portavoce di Transgender Netwerk Nederland, Nora Uitterlinden.

Le ferite inflitte continueranno a fare male molto a lungo, sia per quelle persone che si sono dovute sottoporre a questo tipo di interventi, sia per quelle che, per non doverli subire, hanno dovuto vivere senza il riconoscimento legale della loro identità.

Ma sono ancora troppi i Paesi che riservano questo tipo di trattamento o che addirittura negano la riassegnazione di un genere diverso da quello biologico. Secondo quanto riporta Transgender Europe, una ONG tedesca fondata nel 2005 per tutelare i diritti delle persone transgender e contrastarne le discriminazioni in Europa e nell’Asia Centrale, sono ancora molti i Paesi dell’Unione Europea che ancora prevedono l’obbligo della sterilizzazione per ottenere il riconoscimento legale della nuova identità: Finlandia, Cipro, Lettonia, Slovacchia e Romania. Oltre a questi, va segnalato che in Ungheria e in Bulgaria ancora oggi non viene concesso il diritto di riconoscersi in una nuova identità di genere.

Nel 2018, anche in Repubblica Ceca sono stati fatti dei passi avanti in questo senso, quando il Comitato Europeo per i Diritti Sociali ha decretato che la sterilizzazione coatta provocava un grave impatto sulla salute fisica e psicologica e considerava anticostituzionale costringere le persone trans a scegliere tra la propria integrità fisica e quella che è la propria identità. Una decisione che ha seguito quella della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo che nel 2015 aveva emesso la prima condanna nei confronti della Francia, per aver proibito il riconoscimento legale della nuova identità a un gruppo di persone transgender che non si erano sottoposte all’intervento.  

In Italia una sentenza della Corte di Cassazione del 2015 ha definito illegittima e anticostituzionale la sterilizzazione coatta e ha pertanto stabilito che per il cambio di genere all’anagrafe non è necessario alcun trattamento chirurgico. Al momento la transizione nel nostro Paese è ancora formalmente regolata dalla legge n.164 del 1982 che prevede l’intervento di demolizione dell’apparato genitale biologico per poter riconoscere legalmente la nuova identità di genere. A seguito della decisione della Corte di Cassazione, sempre più tribunali hanno deciso di affidarsi al principio di autodeterminazione, concedendo la rettifica anagrafica senza obbligo di interventi chirurgici.

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