"Ma che è, n'omo?": quando la cultura non basta a fare un uomo

Si stanno buttando giù statue e sepolcri imbiancati che si pensavano ben più eterni. Viene anzi il dubbio a volte che questo modello maschilista obsoleto stia tirando gli ultimi colpi di coda, più rabbiosi che mai perché, finalmente e forse per la prima volta, ha davvero paura. E a ragione: la minaccia non è mai stata così reale.

La domanda, lo si dica al professor Gervasoni, non solo è indegna del ruolo, ma pure mal posta e pretestuosa.

Ché se qualcuno non sa chi è Elly Schlein, vicepresidente della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna, già eurodeputata, cui il settimanale l’Espresso dedica la copertina riportata di seguito, s’informi: valuti il suo pensiero, l’etica, la scelta politica e decida se condividerli o osteggiarli.

Prescinda, per favore, dal genere, dal fatto di trovare il suo aspetto più o meno piacente, prescinda anche dal suo orientamento sessuale: non tolgono e non aggiungono nulla ai suoi eventuali meriti o demeriti.

Non si dovrebbe prescindere invece, in nessun caso ma in particolar modo se si fa il lavoro di Gervasoni, dalla decenza di una dialettica di confronto (o anche di scontro) che abbia i requisiti minimi di rispetto e capacità di esprimersi in un italiano appropriato per modi e contenuti.

Invece Marco Gervasoni, docente ordinario di Storia contemporanea all’Università degli studi del Molise, sceglie di affidare la sua vis polemica alla volgarità del commento riportato nell’immagine in evidenza dimenticando, in un colpo solo, educazione, arte oratoria, di cui pure il nostro Paese nonché i miti ostentati dal Gervasoni (si veda immagine profilo Instagram) furono maestri, e pure l’italiano.
Non benissimo, per una figura accademica che dovrebbe rappresentare un pezzo della cultura di questo Paese ed educare le menti di uomini e donne, senza che queste ultime debbano rispondere ai criteri estetici del loro professore per essere meritevoli di considerazione e di avere il diritto di sostenere, nel caso, anche opinioni differenti dal “maestro”, senza per questo essere sminuite per caratteristiche altre rispetto alle loro competenze.

Genere compreso. S’intende.
Che, se ancora non fosse chiaro a qualcuno, non è una competenza sulla base del quale si possa essere valutati.
Né fa eccezione in questo Elly Schlein sebbene, in quanto donna, si presume sia avvezza al fatto che le critiche al suo lavoro si traducano spesso in riferimenti a genitali, sesso, mestruazioni, ormoni e occasioni di essere ritenute desiderabili dallo sguardo maschile. Chiunque è donna lo sa bene.

Ma se anche sulla prossima copertina di un qualche magazine dovesse esserci un* politic* non riconducibile al dualismo arbitrario del genere – donna o un uomo trans, lesbica, gay, bisessuale, pansessuale, asessuale, persona non binaria in generale – e aggiungiamo pure le discriminanti giovane, vecchi*, bell*, brutt*, disabile, ner* o di altra etnia, possiamo pretendere venga giudicat* (soprattutto da professionisti di cultura) per le sue competenze?

È chiedere troppo? Pare di sì. Pazienza se la dottoressa Schlein sui social ci mette la sua faccia insieme alle sulle idee, mentre il professore sceglie come immagine profilo un ritratto di François-René de Chateaubriand, nel tentativo forse di suggerire un’appartenenza intellettuale e culturale in grado di attribuirgli da sola autorevolezza.
Con buona pace di Chateaubriand che, al netto del pensiero conservatore con delega reazionaria, c’è da credere non avrebbe gradito altre uscite irridenti di Gervasoni (come quella in cui si è divertito a invocare che la SeaWatch fosse “affondata, bum bum”).

Ironia, dice lui, che in qualche post precedente ce l’ha ovviamente con il politically correct, che nei bar si traduce in “Non si può più dire niente”, sottotesto: “Tristezza, non si può più umiliare o insultare – ma per ridere, neh?! – + aggiungi minoranza di turno a piacere” (in genere donne, omosessuali, persone con disabilità o di etnie varie, uomini che non rispondano ai criteri del machismo, osannato dallo stesso professore come bene sempre più raro insieme a “virilità e mascolinità”).

Eh no, non si può o non si dovrebbe più potere. Tocca fare uno sforzo, coniare un linguaggio nuovo non più basato sull’umiliazione e la denigrazione di varie minoranze e sul riconoscimento di un unico e arbitrario modello dominante: maschio, bianco, etero.
Che mestizia pensare che chi ricopre certi ruoli non sia in grado di vederci un’occasione.

Pazienza, sarà per un’altra occasione. Ma almeno un minuto di silenzio per gli studenti del professore. Spiace per loro e per tutti noi.

Nel frattempo, notizia di ieri, il buon Vittorio Sgarbi – un altro che la sua innegabile e infinita cultura la usa un tanto al chilo per fare da schermo a un altro genere di scarso illuminismo – arriva a Venezia senza mascherina (dopo aver preteso di vietarne l’utilizzo quando reputate “inutili” nel comune di Sutri, di cui è sindaco) e dileggia chiunque gli faccia notare la necessità di attenersi alle norme sanitarie, tra cui l’attrice Sara Serraiocco che, premiata da lui, si ribella al fatto che il critico si ostini a ignorare le distanze di sicurezza. Ma si sa, siam capre.

Nota positiva.
Con un po’ di fortuna, finirà tutto questo.
Si stanno buttando giù statue e sepolcri imbiancati che si pensavano ben più eterni.
Viene anzi il dubbio a volte che questo modello maschilista obsoleto stia tirando gli ultimi colpi di coda, più rabbiosi che mai perché, finalmente e forse per la prima volta, ha davvero paura. E a ragione: la minaccia non è mai stata così reale.

La stiamo vedendo crescere tutt* questa nuova umanità che non ha più bisogno di generi, etichette, modelli univoci e di identità tanto fragili che, per definirsi, devono escludere le altre. Si sta prendendo sempre più spazio.
Diamogliene ancora di più.

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