Le tre 'mosse' che 'tagliano fuori' le donne dal mondo del lavoro

Ripensare il mondo del lavoro, legiferare un modello più sostenibile rispetto a quello capitalista - l'unico che conosciamo, ma non il solo possibile -  a ogni evidenza, non può più essere considerata un’utopia. A chi dice che è un'illusione, tocca rispondere che è l'unica strada possibile. O non ci sarà un futuro del lavoro, né un futuro in generale, e non solo per le donne. 

Recentemente mi è stata posta una ‘domanda impossibile’: “Cosa pensi debbano fare le aziende per ridurre il divario di genere?”.

Un quesito da miliardi di euro che, nella fattispecie, vale tra 1,6 e 2,3 mila miliardi di euro: quelli che il raggiungimento della parità di genere si stima andrebbe ad aggiungere al PIL mondiale (+2/3%), insieme a un incremento dei post di lavoro stimata tra i 288 e  433 milioni di unità. Così, giusto per ricordare che il gender gap non fa male solo alle donne, e che attuare un cambio di rotta conviene a tutte e e tutti, oltre a essere una questione di giustizia sociale inderogabile.

Ho riflettuto molto su questo interrogativo, perché è chiaro che le mie competenze siano limitate e le forze in campo tante, e abbiano a che fare con tutti gli aspetti della nostra società: finanziari e politici, certo, ma a monte ancor più antropologici, sociali e culturali. Non volevo però sottrarmi alla domanda da miliardi di euro che mi è stata posta, né mi sembra un esercizio sterile tentare un ragionamento che, senza ambire a risolvere il tema del lavoro femminile – problema che si colloca nella più grande e millenaria discriminazione della storia dell’uomo -, metta a terra alcune considerazioni e spunti di riflessione.

Le tre ‘mosse’ che ‘tagliano fuori’ le donne dal mondo del lavoro

Partiamo da qui, ovvero dal titolo. Vorrei dire che non è una partita a scacchi, ma la verità è che a tratti ci somiglia: salvo il fatto che la posta in gioco è troppo alta per metterla in canto e dire, come De Gregori, “io non lo sapevo che era una partita, posso dartela vinta e tenermi la mia vita”. Sul piatto c’è la possibilità delle donne di avere una vita libera da dipendenza (e violenza) economica, povertà in età pensionale e la possibilità di autodeterminarsi.

Il divario di genere perseguita le lavoratrici all’interno delle aziende sempre, ma in modo diverso a seconda del punto del percorso professionale in cui si trovano. Credo sia importante partire da questo presupposto e individuare almeno tre step – selezione, percorso di carriera, permanenza nel mondo del lavoro – per definire strategie diversificate. È in queste fasi che agiscono i bias e si compiono la maggior parte delle ‘mosse’ che mettono le donne alla porta o, a monte, non le fanno accedere al lavoro.

Fase 1. La selezione
(la mossa ‘Potresti diventare mamma…’)

In fase di selezione è dimostrato che, a parità di competenze, le aziende tendono non solo a pagare meno le donne, ma a preferire direttamente candidati maschi (anche in casi in cui questi ultimi siamo meno profilati di una candidata arrivata alla fase finale del processo). Il motivo principale, va da sé, è la potenzialità riproduttiva della donna, che come ho analizzato in questo articolo discrimina coloro che sono o vogliono diventare legittimamente madri, ma anche le donne che non possono avere figli o che scelgono consapevolmente di non averne e subiscono almeno tre tipi di penalità:

In questo contesto, ci sono almeno tre necessità/soluzioni, ben note agli economisti che si occupano del tema, ma puntualmente ignorate dalle aziende e, a monte, dalla politica:

  1. Prevedere diversity nel team di selezione
    Parlo della necessità di selezionare e formare il personale addetto alle risorse umane (HR human resources) alla diversity (non solo di genere) come ricchezza, non come quota dovuta e/o subita.
    Senza con questo togliere nulla alle quote rosa: senza la legge Golfo-Mosca approvata nel 2012, che impone alle società quotate di riservare alle donne almeno un terzo dei posti previsti negli organi di governo saremmo ancora meno rappresentate nel mondo del lavoro: non perché meno meritevoli o competenti, ma per i meccanismi di cui stiamo parlando qui. Nel mondo ideale basterebbe occuparci del merito, ma basta andare a vedere i dati: com’è possibile che le percentuali di manager, rettori, direttori e dirigenti nei ruoli decisionali siano così sbilanciate a favore degli uomini?
    Certo, potremmo dedurne che noi donne siamo meno capaci o intelligenti, ma le performance scolastiche e quelle delle aziende a guida femminile ci dicono che non è così. Anzi. E quindi? Quindi, ne stiamo parlando.
  2. Adottare processi di selezione anonimi, fino a che è possibile
    Il blind recruiting prevede che l’analisi dei curricula vitae o la valutazione di una prova sottoposta ai candidati e alle candidate avvenga senza che siano noti dati sensibili: nome e cognome, genere, anno di nascita, nazionalità, fotografie, situazioni familiari, disabilità.
    Prendiamo l’esempio della New York Philharmonic, che per buona parte della sua storia secolare è stata composta da tutti maschi, fino all’introduzioni delle blind audition che, nel 2022, hanno portato all’attuale formazione a maggioranza femminile (45 donne e 44 uomini). Esempi simili, per quanto meno eclatanti, evidenziamo quanti bias introiettati e inconsapevoli agiscano in sede di selezione e discriminino, non solo le donne. Il che mi permette di sottolineare come la nostra società continui a considerare peraltro solo due generi, e non riconosca le soggettiva trans e non binarie troppo spesso confuse – sbagliando – con orientamenti sessuali.
  3. Normare la trasparenza salariale
    L’art. 46 del d. lgs. 11 aprile 2006 n. 198 p, che prevede il divieto di discriminazione salariale, riguarda al momento solo le aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti. L’Italia, però, è un Paese fatto per lo più da piccole e medie imprese.

Fase 2. Carriera
(la mossa ‘Un uomo anche meno incompetente è più affidabile’)

Per quanto riguarda il secondo step, gli avanzamenti di carriera spesso per le donne non arrivano, o mantengono la costante del gender pay gap, o si fermano alle soglie del cosiddetto soffitto di cristallo. Non è raro che le lavoratrici non sfondino il glass ceiling neppure a fronte di responsabilità strategiche e mansioni effettivamente svolte, ma non riconosciute a livello di inquadramento e di ruolo.

Anche qui torna prioritaria:

  1. l’esigenza della trasparenza salariale,
    ma anche
  2. l’istituzione di audit interni
    che monitorino e verifichino reali competenze e l’equità delle carriere, affinché non sia possibile entrare in un’azienda e, tre, cinque, dieci, venti anni non aver fatto alcun percorso professionale e salariale.
  3. l’ampliamento delle quote rosa, o quote diversity
    anche in assenza di quotazione in borsa: non nella piccola o medio piccola impresa, chiaro, ma nella medio grande sì.

Il tema della carriera è intrinsecamente connesso al terzo, così come la macro penalizzazione ‘maternità’ che affligge le lavoratrici ancora prima di essere madri o di entrare nel mondo del lavoro.

Fase 3. Permanenza nel mondo del lavoro
(la mossa ‘Grazie, ma ci serve il tuo lavoro non retribuito di cura!’)

E poi c’è la questione spinosa della permanenza nel mondo del lavoro, per quelle donne che vi sono entrate (comunque meno del 50% in Italia). Solo nel 2020 più di 30mila donne con figli hanno rassegnato le dimissioni, richiamate al ruolo esclusivo di cura dalla fase più dura della pandemia. Senza parlare del fatto, ma facciamolo!, che quasi il 45% delle madri in età da lavoro è inoccupata o, se lavora, lo fa part-time. Quello che accade alle lavoratrici che hanno figli è evidente: qualcuno resiste dopo il primo figlio, non tutte, ma la maggior parte dopo il secondo molla o passa a contratti part-time.

Il gender gap rispetto ai fatti della genitorialità è mastodontico e i costi sociali dell’incompatibilità del mondo del lavoro con la maternità sono tanti. La maggior parte impattano sulle donne, come:

  • il motherhood penalty
    ovvero una serie di penalizzazioni in termini di mantenimento/ rinnovo del contratto, carriera e stipendio – nel dettaglio, le lavoratrici con figli perdono in busta paga tra i 1.700 e i 3.500 euro l’anno di quelle senza – a fronte invece di un fenomeno studiato e noto come fatherhood bonus, secondo il quale la paternità corrisponde per il lavoratore ad aumenti di stipendio, avanzamenti di carriera e ruoli di maggiore responsabilità
  • la dipendenza economica
    e rischi connessi in termini di:

    • violenza economica
    • impossibilità di autodeterminarsi
    • povertà in età pensionabile
  • il second shift e il carico mentale
    che portano le lavoratrici madri al burnout, compromettono la loro salute psico-fisica e, di conseguenza, espongono i figli a rischi maggiori, connessi alla stanchezza o alla depressione delle madri.

L’emorragia delle donne dal mercato del lavoro è un problema sociale, e non solo per quel mancato +3% del PIL che porterebbe un benessere condiviso. Lo sforzo sisifico delle lavoratrici per mantenere un lavoro, pur più precario e meno pagato di quelli dei colleghi, fa sì che in molte decidano di non avere figli, o non possano permetterseli e quindi rinuncino.
La denatalità e la minaccia – reale solo da un punto di vista razzializzato, ma questa è un’altra storia di discriminazione ancora – di un inverno demografico e del collasso del sistema welfare sono questioni quasi sempre affrontata da un punto di vista populista (con fertility day e iniziative volte a minare il diritto all’autodeterminazione delle donne).

In realtà i numeri ci dicono che, ancora una volta, il punto è un altro e, quindi, altra è la soluzione. In Non è un Paese per madri (Laterza, 2022), la demografa Alessandra Minello dimostra che oltre la metà degli italiani sarebbe felice di avere almeno due figli, se potesse, e che se è vero che la scelta childfree volontaria cresce a livello globale, essa riguarda in Italia meno di due donne su 10: per le altre, la non maternità non è una scelta, e spesso è una condizione subita per mancanza di mezzi o compatibilità tra progetti lavorativi e familiari.

Insomma, finché la maternità (anche solo potenziale) sarà affrontata dalle politiche del lavoro come un “problema da risolvere” non ne verremo a capo, né basteranno i congedi di paternità, a meno che questi non vengano equiparati e resi obbligatori per tutte e tutti.

Una nuova cultura del lavoro e un nuovo sistema lavoro

Lo scorso Natale è morta Elena Gianini Belotti che nel suo Dalla parte delle bambine spiega bene la necessità di sradicare – a partire appunto dalle bambine e dai bambini -, l’idea della divisione di ruoli femmine=famiglia/ cura, maschi=lavoro/ società/ governo.
Credo che nulla possa davvero cambiare senza un ripensamento filosofico e politico, quindi legislativo, economico, organizzativo e contrattuale, del mondo del lavoro. Attualmente, per citare la nostra Costituzione, “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, o meglio, su un preciso modello di lavoro: capitalistico, performativo, intensivo, basato solo sulla produttività e sulla performance. Aggiungo, ma non sono io a dirlo: insostenibile, da un punto di vista umano (e quindi dei diritti di tutte e tutti) e da quello ambientale.

Ripensare il mondo del lavoro, legiferare un modello più sostenibile rispetto a quello capitalista – l’unico che conosciamo, ma non per questo il solo possibile –  a ogni evidenza, non può più essere considerata un’utopia. A chi dice che è un’illusione, tocca rispondere che è l’unica strada possibile, o non ci sarà un futuro del lavoro, né un futuro in generale, e non solo per le donne.

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