La fuga da Kharkiv alla Germania - INTERVISTA a Lana Dmytrenko

La famiglia Dmytrenko ha atteso 12 giorni dall’inizio dell’invasione, fino a che l’elettricità non è saltata del tutto e gli allacci del gas, necessario sia per cucinare che per riscaldare gli ambienti, non sono stati recisi. A quel punto sono fuggiti.

Kharkiv prima del conflitto era una città poco nota dell’Ucraina. A parte forse qualche esperto di storia dell’URSS che la collocava come prima capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, prima che diventasse uno dei luoghi più colpiti dall’invasione Russia, erano poche le persone a pensarla, ad immaginare come la vita si srotolasse per le strade della seconda città più grande dell’Ucraina.

Oggi il nome della cittadina è noto a tutti, le immagini dei bombardamenti e delle persone in fuga hanno costruito un’idea precisa di dove e cosa sia. Definita la città- bersaglio, Kakhiv era prima di tutto casa per chi la abitava, quella da abbandonare oggi ma che, fino al 20 febbraio era ancora un luogo in cui tornare, soprattutto per chi, come Lana Dmytrenko, fotografa e videomaker documentarista, si era trasferito nella capitale.

Lana Dmytrenko era in visita quando la guerra è cominciata, consapevole che la presenza Russa al confine era in qualche modo diversa dalla solita presa di posizione esterna. Il riconoscimento governativo del Donbass, spiega, le aveva fatto intuire che l’esercito russo sarebbe entrato e che una guerra sarebbe iniziata.

“La mia giornata è iniziata alle 5 del mattino, quando il suono delle esplosioni mi ha svegliata. Vivevamo nel distretto più prossimo al confine russo, l’area più colpita, perciò abbiamo dovuto lasciare la nostra casa il più velocemente possibile”.
Da quel risveglio, Lana e la sua famiglia hanno trascorso 12 giorni in un seminterrato a casa di amici cercando di supportare a aiutare chi si era rifugiato sottoterra e nelle stazioni della metropolitana, assicurandosi che la comunità avesse cibo e generi di prima necessità. Il padre e il fratello di Lana hanno aiutato diverse famiglie ad evacuare, aiutandole a raggiungere stazioni e fermate degli autobus, il punto iniziale di quel lungo viaggio verso i confini.
“La cosa più spaventosa -dice- erano i caccia che sorvolavano la casa che avrebbero potuto bombardare in qualsiasi momento e nessuno sapeva quale sarebbe stato il prossimo bersaglio”.

Il presidente Zelensky, a inizio marzo, ha denunciato i bombardamenti russi su Kharkiv come crimini di guerra: “a Kharkiv i russi non cercano l’esercito “nemico”, uccidono direttamente i poveri diavoli. È una decisione evidentemente politica: per ordine di Mosca si colpisce anche in pieno giorno. A tradimento. Quando la gente esausta dal coprifuoco ha messo la testa fuori dal rifugio, un soldato russo a distanza di sicurezza gliel’ha fatta saltare in aria”. La situazione sottoterra, dopo un mese, si sta deteriorando in fretta, gli ambienti congestionati dalla presenza umana, dallo scarso ricambio di aria, il freddo aggredisce laddove i riscaldamenti vengono meno e le malattie, dalle piccole infezioni alle conseguenze della prolungata esposizione a basse temperature, si diffondono agilmente.

La famiglia Dmytrenko ha atteso 12 giorni dall’inizio dell’invasione, fino a che l’elettricità non è saltata del tutto e gli allacci del gas, necessario sia per cucinare che per riscaldare gli ambienti, non sono stati recisi. Hanno trascorso due giorni interi in viaggio e Lana spiega che chi aveva lasciato la città per primo e aveva compiuto quella medesima tratta ci aveva impiegato persino di più tanto era congestionato il traffico.
Dalla Romania la famiglia si è diretta in Germania, attesi da parenti che hanno offerto ospitalità a loro e ad altri rifugiati, ora vivono in 9 in un appartamento e Lana precisa che sarà presto necessaria un’altra sistemazione perché l’ambiente è effettivamente inadatto, troppo piccolo, perché nove persone possano conviverci a lungo.

“Ora ci sentiamo al sicuro, ma ci svegliamo comunque con lo stomaco ritorto e la paura, reagiamo ad ogni suono, soprattutto al rumore prodotto dagli arei o a quello delle porte che sbattono”. Il dolore di aver lasciato una casa Lana lo riempie cercando di mantenere i contatti con gli amici che si sono arruolati o con quelli ancora bloccati nelle zone più pericolose, seguendo le notizie e gli sviluppi e credendo strenuamente nel futuro dell’Ucraina.
“Le persone si sono unite, si sono aiutate a sopravvivere e sono entrate nell’esercito per difenderci da questa guerra. Stiamo diventando una nazione forte”.

Non si immaginava una guerra del genere nel XXI secolo e non in Europa. “Ma sta succedendo e mi sento come se stessi vivendo in un film o in un sogno. Non riusciamo nemmeno a capacitarci di quanto è successo e di quanto sta accadendo, ma è reale”.

Lana aveva documentato il conflitto in Donbass nel biennio 2014-2016 ma nulla di allora è paragonabile a quanto si è verificato finora. Persino l’allineamento di truppe al confine non li aveva straniti troppo, non era la prima volta e anzi, era quasi una comunicazione ripetuta e cadenzata del regime di Putin, testimonio della sua presenza e delle sue mire.

“In ogni caso, quando la guerra finirà tornerò a casa, nelle mie città, – Kyiv e Kharkiv – e farò di tutto per aiutare a ricostruirle”. Ma forse Lana non aspetterà la fine della guerra, vorrebbe rientrare e testimoniare quanto sta accadendo, raccontare la guerra e fare quanto possibile per contribuire a riportare la pace nel suo paese.

Kharkiv
Foto di Lana Dmytrenko

Lana Dmytrenko è una persona, una degli ormai quattro milioni di individui che hanno lasciato, e che hanno potuto lasciare, l’Ucraina per cercare rifugio anche se, Lana precisa, non riesce a cucirsi addosso la parola rifugiato, non la riesce a connettere con la sua identità, piuttosto si pensa parte della sua nazione, del suo paese, della sua gente che soffre. Rifugiato, una parola che è al contempo salvezza e stigma, una parola che se riconosciuta salva vite ma che quando negata ne condanna persino di più. Quando si parla di status e di leggi è un termine essenziale, ma che si accompagna a qualcosa di profondo ed intimo, si aggancia all’identità personale, a come ci si percepisce e a come si è percepiti. Lana è cresciuta a Kharkiv, ma da sei anni viveva a Kyiv, la sua famiglia, i suoi genitori e i fratelli più piccoli, risiedevano permanentemente nella città, una delle più colpite dai bombardamenti, in cui almeno 600 edifici sono stati distrutti e, secondo le stime del servizio di emergenza statale ucraino, sono state uccise circa 500 persone.

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