Il ritorno dalla Slovacchia di Papa Francesco è stata l’ennesima occasione utile per rilasciare delle dichiarazioni su alcuni temi “scomodi”, almeno per la Chiesa Cattolica.

Dopo un proficuo incontro con Viktor Orban, capo del governo ungherese, condannato a più riprese dall’Europa a causa delle politiche discriminatorie messe in atto con la comunità LGBTQIA+, Sua Santità deve aver rinvenuto numerose somiglianze, tanto da portarlo a fare, per l’ennesima volta, affermazioni che non sono passate inosservate.

In particolare, il Papa c’ha tenuto a ribadire che il matrimonio, canonicamente inteso, riguarda l’unione tra un uomo e una donna, chiudendo quindi ogni possibilità all’estensione del sacro vincolo a coppie non eteronormate. Per quanto concerne, invece, l’aborto, nonostante la necessità di “affrontare i rapporti con chi abortisce o provoca l’aborto su un piano pastorale oltre che dottrinale”, è stato ribadito con ferma convinzione che l’aborto è un omicidio. Per la proprietà transitiva, dunque, chi lo pratica è un’assassinə.

Rispetto al tema dell’interruzione volontaria di gravidanza il Papa si è già espresso ampiamente. Si vede che è un tema a lui molto caro e che siamo sempre nei suoi pensieri, che meraviglia. Nel 2018, infatti, il personale non obiettore, già oberato dalla pressione di un carico di lavoro immane a causa delle percentuali altissimi di obiettori di coscienza, si è visto cadere addosso il marchio di “sicario”.

Niente di nuovo, mi verrebbe da esclamare. Nonostante in più occasioni l’attuale Papa sia stato raffigurato, nell’immaginario collettivo, come una figura di rottura rispetto alla visione di una Chiesa conservatrice e discriminante, nei fatti si conferma aderente, su tutta la linea, ai suoi predecessori. Anzi, mi pare che l’uso di una terminologia così pulp (tanto da farci sentire, mentre andiamo ad abortire, nelle saga de Il Padrino), inquadri e identifichi con molta chiarezza la linea che il Papa ha scelto di percorrere.

Nonostante sarei ben lieta di dedicarmi ad altro e non certamente a sua Santità, mi tocca fare i conti con il portato che queste affermazioni assumono in un panorama sociale e culturale così precario in materia di diritti civili. Con il DDL Zan fermo da mesi in Parlamento, una voce sempre più forte e insistente che continua a richiedere l’eutanasia legale e la legalizzazione della cannabis, la continua deriva reazionaria sui temi della salute riproduttiva nel nostro Paese, non possiamo davvero credere che queste parole rimangano “lettera vuota”, oppure una semplice opinione che continuiamo ad aspettarci uguale a se stessa nel tempo e nella storia.

Rivendicare la laicità delle leggi dello Stato, ad oggi, non basta più. Bisogna fare necessariamente i conti con l’ingerenza continua della Chiesa Cattolica nel nostro Paese, un Paese che è legato a doppio filo a quelle che sono le visioni, e dunque le linee guida, offerte dal Capo della Chiesa. I movimenti anti-choice, così come i movimenti nazionalisti contrari all’affermazione dei diritti di tuttə, da queste parole traggono profondo giovamento e una linea direttrice su cui continuare a camminare dritti.

Parliamo di una responsabilità politica, perché è di politica che stiamo parlando, che continua a definirci nella cornice dei diritti, discriminando tra buoni e cattivi, assassini e salvatori, tra persone meritevoli e una massa informe immeritevole di considerazione.
Richiedere un colpo di reni vigoroso al nostro Stato, distaccandosi radicalmente dal potere d’azione agito dalla Chiesa, sarebbe l’unica possibilità di lasciare a queste affermazioni il tempo di una lieve indignazione.
Ma questo tempo, purtroppo, non è stato scritto, e chissà se verrà scritto mai.

Ci resta, allora, il tempo della lotta, delle nostre rivendicazioni e della necessità di ribadire che no, abbiamo abortito e non siamo delle assassine e ancora no, il campo dei diritti investe tutte le soggettività a prescindere dall’aderenza ai dettami della Chiesa.
Mi domando, invece, cosa ne è, e cosa ne sarà, di tutte quelle persone credenti che hanno abortito, che sono all’interno di una relazione eteronormata, che vivono per sé o per i propri cari la volontà di mettere fine a un’esistenza dolorosa e invalidante, e che continuano a sentirsi emarginate in quella che considerano la propria casa.

Esistono credenti di serie B? Esistono persone che possono ritrovarsi nella loro fede e nelle istituzioni di quella fede soltanto a partire da un’ammissione di colpa? I rei confessi della Chiesa Cattolica?

Io mi domando tutto questo amore e tutta questa libertà dove finisca quando si lascia spazio al peso feroce di queste parole di esclusione ed emarginazione.
Una Chiesa capace di discriminare e stigmatizzare, quale ruolo edificante può avere nella vita di una persona che continua a vedere negati i propri diritti se non alla luce di una redenzione seppur non si è commesso nessun reato.

Una sola domanda, allora, dovrebbe attraversarci: “Perché li hai abbandonati, Sua Santità?”. E chissà se avremo mai una risposta.

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