Guai a parlare di quote rosa.
Niente da dire invece sulla cancellazione sistematica di metà della popolazione dai ruoli che contano.

Mondadori, il primo gruppo librario italiano, avvia una riorganizzazione e ridisegna l’Area Trade e la formazione è all’insegna di un’egemonia maschile che, stavolta, non contempla neppure la minima eccezione sindacabile per provare a contrastare l’ira funesta del politicamente corretto antimeritocratico, come in molti stanno cercando di sminuire le istanze femministe.

Tutti maschi. E sia chiaro: nessuno qui ne fa una questione meritocratica nei loro confronti. Sicuramente tutti meritevoli ma, a livello statistico, quanto è probabile che, ancora una volta, non si trovino donne abbastanza capaci (o più capaci dei colleghi uomini) in uno dei poli culturali centrali del nostro Paese? È così o la verità è un’altra? Chiedo per un’amica, verrebbe da dire.
L’obiezione è prevedibile e legittima (e questa, del resto, non vuole essere un’illazione, ma l’apertura a un dibattito): stiamo parlano “solo” dell’Area Trade del Gruppo Mondadori, che è grande e annovera altre donne al potere, a partire dalla presidente Marina Berlusconi che, però, pur con le necessarie capacità, gioca in casa e non ha dovuto sfondare il soffitto di cristallo (per quanto, a naso, le crederei se mi dicesse che pure a lei è toccato dimostrare più di quanto non sia lecito chiedere a un uomo).

Credere alla buona fede di un’assenza femminile casuale, intesa come su basi meritocratiche non è neppure del tutto impossibile del resto.
Nessuno penserebbe ragionevolmente che in Mondadori, come nei board aziendali delle più grandi corporate, un gruppo di maschi si sia riunito in una loggia massonica a pontificare sulla necessità di non fare entrare tra loro nessuna donna.
Il dubbio è che il fatto sia culturale e, fino a un certo punto, inconsapevole – e in questo senso non meno grave -: basato cioè su un pregiudizio radicato anche in chi non pensa di esercitarlo (donne comprese, mi ci metto dentro per prima, sia chiaro!).

Un pregiudizio storico che diventa omissione involontaria di un genere, amnesia di massa e di una massa (metà della popolazione) e che va contrastato in consapevolezza. In questo senso le quote rosa non sono il lasciapassare a donne non meritevoli, semmai una regolamentazione – fastidiosa perché non dovrebbe essere necessaria, ma lo è – per fare accedere almeno parte di quelle che lo sono.

A proposito di quote, del resto, se ne parlava giusto qualche giorno fa con Chiara Sfregola, recentemente in libreria con Signorina (Fandango Libri), di cui a breve pubblicheremo l’intervista.
In un passaggio del suo libro, in cui la Sfregola va di date e di Storia, non di “impressioni” come si potrebbe obiettare alla sottoscritta, si annovera questo fatto:

Nel 1938 fu stabilito che la quota di donne negli uffici pubblici non poteva superare il 10%.
Pensiamo allo scandalo che ancora oggi suscitano le quote rosa, in tutti gli ambiti del lavoro e della politica, con le varie discussioni intorno alla meritocrazia. Voglio dire, 90% di uomini è una bella percentuale, ma non è facile da raggiungere. Chissà se all’epoca questo 90% minimo di quota celeste era composto da tutti e soli uomini meritevoli o furono costretti ad assumerne – loro malgrado, sia chiaro – qualcuno incapace pur di raggiungere la soglia. Ma evidentemente le quote celesti non erano abbastanza.

A chi voglia obiettare che si tratti di fatti ormai “passati” e superati, non lo sono!, possiamo allora opporre i numeri attuali, perché solo i dati trasformano i sentimenti personali in ragioni e problemi dimostrabili.
Lo abbiamo fatto, recentemente, qui con Claudia Segre, Presidente Global Thinking Foundation, e per non ripeterci o parlarci addosso rimandiamo all’intervista originale:

Così, giusto perché non si pensi alle solite personalissime rivendicazioni di qualche femminista.

Non scrivo delle femministe, attenzione, scegliendo di dare un peso specifico alle parole e per uscire dalla logica dei detrattori di una massa di isteriche fuori tempo massimo da un Sessantotto andato e, per certi aspetti, messo a tacere o tradito consapevolmente da quelli che “il patriarcato non esiste”, ché negarlo è poi il modo migliore per difenderne i privilegi.
Perché è bene che ci si renda conto, una volta per tutte, che il femminismo non riguarda solo le donne e femminista è un aggettivo davvero senza genere, se non quello della persona che sceglie di esserlo, ché nessuno ci nasce femminista in una società che ci alleva tutti a pane e maschilismo.
Femmina o maschio non cambia (ma perché non provare a ragionare in termini di esseri umani, al di fuori del dualismo binario di un’assegnazione sessuale?): femministi si diventa.

E quindi? Tornando a bomba, dopo necessaria digressione: posta la buona fede dei vertici aziendali, politici e istituzionali ad alto tasso di testosterone, resta il problema, che si fa radicale quando si parla della prima industria culturale del Paese.

La rimozione delle donne dai vertici non è solo la discriminazione di un genere, ma è la rimozione di un’intera prospettiva culturale e sociale sul mondo.
Si sceglie, di nuovo, di dare una sola versione della Storia, adottare un punto di vista parziale che esclude, senza rendersene conto forse (ma è meno colpevole?), tutti gli altri. A essere silenziato non è solo un genere, ma la narrazione che questi porta con sé. Ed è un peccato per chi di narrazioni ha fatto un lavoro e una mission.

Ne perde la cultura, che ne esce più povera e perde, ancora una volta, l’occasione di un nuovo rinascimento culturale e sociale di cui c’è bisogno.

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