La storia, per fortuna a lieto fine, del piccolo Nicola Tanturli, scomparso dalla sua casa nel Mugello e ritrovato vivo ore dopo in una scarpata. ha riportato alla memoria di molti e molte di noi altre vicende di bimbi svaniti nel nulla, come Angela Celentano o Denise Pipitone, o tragedie consumatesi per tragiche fatalità. Su tutte quella di Alfredino Rampi, che nel giugno dell’81 sconvolse un Paese intero, rimasto incollato a radio e tv nella speranza che il piccolo caduto nel pozzo potesse salvarsi.

Di fronte ad avvenimenti del genere è piuttosto facile che sulla sensibilità, il buon senso e l’empatia prevalga il desiderio di commentare a tutti i costi, generalmente per puntare il dito contro genitori giudicati “distratti, non attenti, incoscienti, assenti”. Spesso dimenticando che gli adulti, pur con tutte le responsabilità e gli impegni del caso, restano comunque prima di tutto persone, e in quanto tali fallibili, mancanti, imperfette.

E oggi ha voluto ricordarlo anche Selvaggia Lucarelli, in un pezzo scritto per Tpi in cui, commentando proprio la facilità degli altri di lanciarsi in sentenze sulle tragedie altrui, ha raccontato anche un episodio appartenente alla propria vita.

Qualche giorno fa sono andata a trovare i miei genitori e mio padre, dopo cinque minuti di chiacchiere sul Covid e su come va il mondo, mi ha detto che la storia di Nicola, il bambino che se ne è andato in giro per i boschi del Mugello smarrendo la strada, l’ha molto colpito. Perché ‘tutti voi, alla fine, siete dei miracolati’, ha detto. Per ‘tutti voi intendeva me e due miei fratelli – scrive la giornalista – Ce ne era anche un altro, di fratello, Simone, venuto al mondo qualche anno prima di me. Era nato da poco, dormiva nel suo lettino in ostetricia. Secondo la ricostruzione dei miei genitori, un’infermiera uscì forse a fumarsi una sigaretta, lui ebbe un rigurgito. Morì soffocato.

La distrazione, la leggerezza, l’irresponsabilità di un adulto che doveva badare a dei neonati sono costate la vita a un fratello che non ho mai conosciuto. Nonostante tutto, nonostante io e i miei fratelli, invece, si sia usciti da quell’ospedale in perfetta salute e la nostra incolumità da bambini sia dipesa soprattutto da mio padre e da mia madre, papà due giorni fa parlava di noi altri come dei ‘miracolati’.

E usava questa espressione perché ben consapevole del fatto che quasi tutti gli adulti del mondo, investiti del difficile ruolo di prendersi cura di bambini piccoli, hanno vissuto quegli attimi di pre-morte che sono il momento in cui qualcosa – si scopre – è sfuggito alla loro attenzione.

Il momento in cui ti volti un attimo e tuo figlio non è più accanto a te. Quello in cui vai a girare il sugo nella pentola e tuo figlio ha avuto il tempo per arrampicarsi da qualche parte. Quello in cui rispondi al telefono e tuo figlio sta infilando un soldatino nella presa. Quello in cui lasci giocare tuo figlio con altri bambini in una stanza bonificata che neppure il palco da cui parla Saviano e trovano modi incredibilmente creativi per farsi male. Quello in cui sei convinto che tuo figlio sia lì e invece se n’è andato.

Lucarelli centra un punto fondamentale: il pensiero comune – per gli altri – secondo cui i genitori sono in grado di avere h24 il controllo assoluto dei propri figli.

Che siano grandi o piccoli, non importa. Se sono piccoli ‘io non li perdo mai di vista’, se sono grandi ‘io li ho cresciuti con delle regole e dei valori’. L’idea che i figli possano improvvisare dei fuori-pista, per molti genitori e giudici inflessibili dell’altrui genitorialità, è un’idea fuori dal mondo. […]

Io, da madre, ho cercato di fare del mio meglio ma, tirando le somme, anche mio figlio in fondo è stato fortunato. […] Ho cresciuto mio figlio quasi sempre da sola, mi sono persa dei pezzi ma ho fatto anche degli stupefacenti salti mortali, ho peccato di leggerezza, talvolta, ma sono stata più spesso attentissima. Ho fatto quel che potevo. Credo perfino di passare per una buona madre, ma la linea che mi separa dall’essere stata una madre degenere è sottilissima. Sarebbe bastato un attimo. La tavoletta che scappava di mano, un piede messo male sul pontile, il tram che passava in quel momento.

Io, che come madre non ho mai avuto ambizioni di perfezione, lo racconto con serenità, pur considerando quegli episodi come traumatici. […] Non è facile assolversi, anche se è andata bene. Sopravvive sempre un residuo di senso di colpa. So assolvere molto bene, però, quelli a cui è successo quello che è successo a me (ovvero quasi tutti i genitori), magari con esiti meno fortunati. E, se non assolvo, concedo delle attenuanti, sempre.

Assolvere gli altri, conclude Lucarelli, spesso significa assolvere anche se stessi, e accettare finalmente la propria fallibilità, che è ben diversa dal trascurare i figli o dal non preoccuparsi di cosa possa accadere loro. Significa solo ed esclusivamente mettere in conto che, in quanto umani, non abbiamo i poteri dell’onnipresenza e dell’onniscienza, e che di fronte a storie come quella di Nicola – a lieto fine – o ad altre, dall’epilogo purtroppo peggiore, dovremmo smetterla di improvvisarci giudici degli altri genitori, e di noi stessi, per imparare a perdonare (e perdonarci). Oppure, in caso contrario, almeno avere l’intelligenza di tacere.

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