L'umiliazione di Alina Plahti, ebrea uccisa da Hamas, che non avrà una sepoltura ebraica

Fra le vittime del massacro del festival Supernova anche la giovane Alina Plathi, cui il Rabbinato ha negato la sepoltura nel cimitero ebraico consacrato perché "non completamente convertita all'ebraismo".

L’assalto di Hamas al festival musicale Supernova, il 7 ottobre scorso, ha riacceso la miccia, mai sopita, del conflitto israelo-palestinese, dando il via a un massacro che a oggi, a oltre un mese di distanza, non accenna a fermarsi da ambo le parti.

Fra i tanti ragazzi uccisi dal gruppo terroristico islamico anche la ventitreenne Alina Plahti, che al festival si trovava in compagnia del suo ragazzo, Yonatan Eliyahu e di un altro amico, anche loro tra le 260 vittime dell’attentato.

A far discutere, oggi, è stata la scelta dei rabbini di non concedere la sepoltura alla ragazza in terra consacrata, nel cimitero della sua città, Beit She’an. Il motivo: Plahti non era ebrea secondo l’interpretazione ortodossa della legge ebraica, e per questa ragione, come ha spiegato il rabbino Yosef Yitzhak Lesri, capo del Rabbinato di Beit She’an, non avrebbe mai potuto essere sepolta assieme agli altri ebrei. In sostanza, provenendo da una famiglia di origine russa, non aveva completato le pratiche di conversione all’ebraismo in maniera totale.

Il caso di Plahti ha suscitato indignazione quando è stato discusso lunedì in una commissione della Knesset, il parlamento monocamerale di Israele, e ha fatto riaffiorare un problema che si trascina dagli anni Novanta, quando il rabbinato si è rifiutato di riconoscere come ebrei i soldati immigrati dalla Russia e morti in Libano, e che nel tempo, anche per via della crescita dei partiti religiosi, si è solo ampliato.

Dopo il caso di Alina Plahti è infatti emerso che altre vittime, specie di origine russa, non sono state inumate secondo le procedure del rabbinato e della Halakha, la legge ebraica. Si è venuto a sapere, ad esempio, che lo stesso trattamento è stato riservato alla famiglia Kapshitter, composta dal padre Evgeny, dalla moglie Dina e dai figli Ethan e e Aline. Uccisi mentre cercavano di scappare verso casa il 7 ottobre, sono stati sepolti fuori dalla terra consacrata perché Evgeny Kapshitter non era ebreo, e di conseguenza con lui sono stati sepolti moglie e figli, pur essendo ebrei.

La storia di Alina Plahti ha, come dicevamo, diviso anche il parlamento ebraico: “Alina è stata sepolta ‘fuori dal recinto’ [questa l’espressione che viene usata, ndr.] perché non ha portato a termine il processo di conversione in cui era già impegnata”, ha detto Oded Forer, presidente del comitato per gli affari Aliyah, del partito di opposizione Yisrael Beytenu, contrario alla coercizione religiosa.”Mi vergogno e mi scuso a nome dello Stato di Israele per averla trattata in questo modo”, ha aggiunto.

Gli ha fatto eco Elazar Stern, deputato di Yesh Atid, un altro partito di opposizione che ha condotto una campagna contro la presunta coercizione, scusandosi “In nome del giudaismo. Questo non è il nostro ebraismo”.

La madre di Plahti, Olga, ha detto in commissione che la figlia era solita “accendere le candele [dello Shabbat] e separare il challah [sono due pratiche ebraiche, ndr.]. Si stava convertendo. Voglio dirvi che è stata uccisa perché era ebrea”.

A spiegare le motivazioni della decisione, come detto, il rabbino Lesri, che a Times of Israel ha confermato che la scelta di seppellire Alina Plahti, lo scorso 30 ottobre, fuori dal cimitero ebraico, in una struttura adiacente a quella principale, è stata presa in quanto la ragazza non era considerata ebrea a tutti gli effetti: “Con tutta la sensibilità e l’empatia che proviamo, Alina Plahti non era ebrea – sono state le sue parole – Ha iniziato un processo di conversione durante il servizio militare, ma, per quanto ne sappiamo, ha abbandonato e non stava portando avanti un processo di conversione al momento della sua morte. Pertanto, secondo le procedure del Rabbinato, doveva essere sepolta al di fuori del principale luogo di sepoltura ebraico”.

La famiglia Plahti ha fatto l’aliyah, ovvero è immigrata in Israele nel 2001 da Kaliningrad, in Russia; Olga Plahti non è ebrea, a differenza del marito, Roman, mentre il figlio trentenne Ilya si è convertito all’ebraismo già da diversi anni. Condividono la situazione di migliaia di immigrati provenienti dall’ex Unione Sovietica, 300 mila persone non considerate ebree secondo l’interpretazione della legge ebraica che ne dà il Rabbinato. Lo status di questa minoranza è stato oggetto di molti dibattiti negli ultimi mesi, date le crescenti tensioni sulla religione nate sotto il governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del suo partito, Likud, in coalizione con altri cinque partiti religiosi.

La riaccesa tensione con Hamas e i massacri ininterrotti che dal 7 ottobre devastano l’area di Gaza hanno necessariamente spostato l’asse dell’interesse lì, ma la questione religiosa è indiscutibilmente diventata elemento centrale del movimento di protesta contro il governo insediato nel gennaio del 2023, tanto da culminare in scontri tra persone laiche e religiose durante lo Yom Kippur dello scorso settembre.

Anche perché la legge ebraica, in realtà, contiene disposizioni che avrebbe consentito ad Alina Plahti di essere sepolta nella sezione ebraica del cimitero, ad esempio tramite la sepoltura mista citata dal rabbino e filosofo Maimonide, riservata a coloro che sono stati “uccisi insieme” agli ebrei, combattendo con loro o perché affiliati alla loro lotta. Nel 2016, inoltre, già il rabbinato delle Forze di Difesa Israeliane, che opera in modo relativamente indipendente dal Rabbinato principale, ha posto fine alla sepoltura separata per i soldati ebrei e non ebrei, semplicemente mantenendo uno spazio di 2 metri tra le tombe.

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