Ciò che abbiamo fatto alla donna che ha lasciato il figlio nella 'culla per la vita' è pericoloso

A Pasqua, una donna ha rinunciato al proprio neonato affidandolo a una "Culla per la vita" - presidio in cui è possibile "lasciare il neonato in completo anonimato e in assoluta sicurezza". Nelle ore successive, oltre a essere stati indebitamente diffusi dati personali e una lettera, la direzione del Mangiagalli e persino il conduttore Ezio Greggio hanno lanciato scuse e appelli alla donna affinché si ricongiungesse al piccolo. Qui proviamo a capire perché quanto è accaduto, oltre a non essere lecito, è problematico e rischia di mettere a repentaglio la sicurezza di altri bambini e altre donne.

Dei circa 3.000 bambini rinunciati o abbandonati ogni anno in Italia, solo 400 sono partoriti e non riconosciuti in ospedale da donne che si avvalgono del diritto al parto in anonimato garantito dal DPR 396/2000: un rapporto che mostra quanto la normativa sia poco conosciuta, sia dalle future partorienti sia dall’opinione pubblica. Per intenderci, c’è un “nato da donna che non consente di essere nominata” – questa la formula sul certificato di nascita che dichiara lo stato di abbandono e l’adottabilità – ogni 1000 nati in ospedale.

L’alternativa al parto anonimo, di nuovo poco conosciuta, è l’esistenza in molti Paesi tra cui l’Italia delle cosiddette culle per la vita, una versione moderna e tecnologicamente avanzata delle ruote degli Esposti medievali.
Ed è della culla per la vita della Clinica Mangiagalli di Milano che una donna si è servita nei giorni scorsi per
lasciare il neonato in completo anonimato e in assoluta sicurezza per il piccolo” (questa la dicitura esatta con cui sul sito dell’ospedale si presenta la struttura).

Restando a quanto scritto sul sito mangiagalli.it:

La disponibilità di un presidio come la culla per la vita consente infatti di:

  • evitare l’abbandono indiscriminato che mette a repentaglio la sopravvivenza del neonato, tutelandolo ed assicurandogli il diritto alla vita
  • prevenire ed evitare risoluzioni estreme che negano il diritto alla vita, tutelando anche il diritto di chi “genera” a riconoscere o meno un figlio

Quello che è accaduto nei giorni scorsi, in realtà, è in netto contrasto con quanto dichiarato in quest’ultima frase, e nelle precedenti. Nessun completo anonimato è stato rispettato, né è stato tutelato il diritto di chi genera a riconoscere o meno un figlio.
Al contrario, con la notizia del bambino affidato alla culla per la vita della clinica milanese, sono state fornite dalla stessa direzione sanitaria informazioni su:

  • dati personali del bambino (a partire dal nome assegnatogli dalla madre biologica)
  • effetti personali ritrovati al suo fianco (e persino il contenuto e la calligrafia della lettera lasciata dalla donna).

A partire da queste violazioni della riservatezza, ha preso le mosse un tam tam mediatico che mostra, ancora una volta, come non esista in Italia (e non solo) un reale diritto a rinunciare alla maternità, e a non riconoscere come figlio il frutto del proprio parto. Al punto che persino un personaggio televisivo qualsiasi, nella fattispecie Ezio Greggio, si è sentito in diritto di lanciare un appello alla donna promettendole aiuti e supporti affinché ritorni sui suoi passi.

Non solo è stato negato il diritto di questa donna al completo anonimato di cui sopra, ma le persone, i media e le istituzioni coinvolte – figuriamoci quindi l’opinione pubblica – hanno dimostrato di non riuscire a comprendere la gravità delle proprie azioni, filtrate dalla lente del buonismo maternalista di chi vuole a ogni costo la favoletta della mamma e del figlio che possono riabbracciarsi e vivere insieme felici e contenti. Questa incapacità critica è tanto più grave poiché mette a repentaglio la sicurezza di altri bambini e altre donne che ora potrebbero non sentirsi tutelate – a ragione, visto quanto accaduto! – nel ricorrere alle culle per la vita.

Esisteva un’alternativa a questo chiasso mediatico, senza sacrificare il diritto di cronaca?
Sì, s
i poteva – e si doveva – comunicare l’accaduto (a partire dalla direzione sanitaria) al netto dei dati personali del bambino e del racconto romanticizzato della lettera della madre al piccolo.
Si poteva – e si doveva – cioè dare la notizia garantendo il completo anonimato previsto dalla legge e tutelando anche il diritto di chi “genera” a riconoscere o meno un figlio.

Il caso del bambino rinunciato a Pasqua presso la culla della Clinica Mangiagalli, in sicurezza e con responsabilità, poteva semmai diventare volano di una narrazione diversa, volta a fare conoscere a più persone possibili il diritto a partorire in anonimato, e sollecitare una rappresentazione meno giudicante degli abbandoni controllati (in ospedale o tramite culle), che si sono dimostrati strumenti efficaci di prevenzione al neonaticidio e all’infanticidio, soprattutto in casi di gravidanze vissute di nascosto e di parti che avvengono altrettanto in segreto, nel corso dei quali la morte del nascituro può sopraggiungere per complicanze sanitarie e imperizia, altre per abbandono o per soppressione volontaria da parte della partoriente o del partner*.

Si potrebbe anche fare di più, tipo riflettere – senza morbosità o vis polemica, bensì per interrogare i dati e le possibili soluzioni – sul fatto che le culle per la vita sono preziose, ma presentano limiti intrinseci e almeno tre grossi rischi:

  1. Il primo: il nascituro può trovare salvezza solo a patto di sopravvivere al parto e al post-partum; e lo stesso vale per la donna, che deve trovarsi poi nelle condizioni di occuparsi della consegna sicura del neonato (o avere accanto chi lo possa fare al posto suo);
  2. Il secondo: la possibilità che l’abbandono del neonato avvenga da parte di partner o membri della famiglia, senza il consenso della madre;
  3. Il terzo: l’impossibilità di tenere un registro che, pur tutelando il diritto alla segretezza della donna, possa salvaguardare anche il diritto alle origini del nascituro e, in particolare, l’accesso alle informazioni sanitarie di tipo genetico-ereditarie; oltre ad aprire all’eventualità futura di contatti e ricongiunzioni, secondo la volontà e con il consenso di entrambe le parti.

Forse non è questo il caso, ma l’assenza di una comunicazione capillare sul tema determina il fatto che molte gestanti non siano neppure a conoscenza della legge che, oltre a tutelare il neonato, le protegge e offre loro il diritto di ricevere assistenza sanitaria in ospedale – durante la gravidanza e il parto – senza essere segnalate o punite in alcun modo anche quando prive di permesso di soggiorno o fuorilegge (o, per esempio, senza rischiare di vedersi sottrarre figli precedenti).

Dematernalizzare il racconto del parto in anonimato o dei neonati affidati alle culle per la vita, sponsorizzando una visione de-stigmatizzata di queste pratiche, non è solo un’alternativa possibile, ma la narrativa necessaria per contrastare la violenza romanticizzata e agita su questa donna, tra violazione delle privacy e appelli lesivi dei suoi diritti. Dematernalizzare è fondamentale, affinché non accada ad altre; e altre soprattutto non decidano di tentare strade alternative perché quelle legali, che dovevano essere sicure e anonime, alla fine non si sono rivelate tali per chi le ha precedute.

* Bibliografia essenziale

  • Registro nazionale sui bambini non riconosciuti o abbandonati alla nascita, Società italiana di neonatologia (Sin), 2021.
  • Progetto nazionale ‘Ninna ho’ a tutela dell’infanzia abbandonata, Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus ed il Network KPMG, 2008.
  • Klier, C. M., Grylli, C., Amon, S., Fiala, C., Weizmann-Henelius, G., Pruitt, S. L., & Putkonen, H. (2013). Is the introduction of anonymous delivery associated with a reduction of high neonaticide rates in Austria? A retrospective study. BJOG : an international journal of obstetrics and gynaecology, 120(4), 428–434. https://doi.org/10.1111/1471-0528.12099.
  • Bonnet C. Geste d’amour. Odile Jacob; Paris: 1990.
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